Il sogno infinito di Heimat

Abbiamo visto come la saga di Heimat abbia riletto tutta la storia del secolo breve tedesco e come sia riuscito a rivelarsi come il progetto editoriale tedesco più affascinante e complesso delle ultime generazioni.

Ovviamente un progetto così ricco ed articolato non poteva vedere la sua fine nella nebbiosa mattina del primo gennaio del 2000 ed Edgar Reitz ha sentito il bisogno di dare un seguito alla sua opera oltre l’alba del nuovo millennio, ovviamente procedendo in maniera creativa e non lineare.

All’inizio del nuovo secolo il maestro trasloca dal suo storico ufficio e si trova - come capita a tutti quanti noi solerti e persi in operazioni analoghe - a dover riconsiderare un vecchio e voluminoso archivio.  Passando in rassegna gli scatoloni ed i faldoni della sua “memoria” prende corpo un film curioso: Heimat Fragmente: Die Frauen; se vogliamo una sorta di HEIMAT “3 e mezzo”.

Il film, presentato a Venezia nel 2006, si propone come una sorta di rilettura delle figure femminili che hanno attraversato le tre parti della saga, lavorando come punto di partenza - in una sorta di collage proustiano - proprio da molto di quel materiale inedito “ripescato” durante il trasloco. Il film ha stavolta una durata tradizionale – circa due ore – e si può leggere allo stesso tempo sia come la ciliegina sulla torta che completa la saga, sia come una sorta di nobile “contributo extra” realizzato dallo stesso autore e dedicato all’opera cardine di una vita.

E’ questo un momento importante anche per la vita personale di Reitz, ormai giunto nel cuore della maturità. Nei mesi successivi al montaggio del film perde il fratello Bruno. Questo lutto rappresenterà l’elemento fondamentale per scatenare in lui l’intuizione di una quarta parte.  Die Andere Heimat - Chronik einer Sehnsucht. Si sente addosso la responsabilità degli eventi e come nuovo capitolo Reitz ci regala un seguito completamente inaspettato, estraneo all’ordine della sua epica. Non a caso stavolta di un unico episodio, però di ben quattro ore, e che è uscito in sala da noi, dopo il consueto passaggio veneziano, con il titolo L’altra Heimat: Cronaca di un sogno.

Il film, girato in un bianco e nero rigido e livido (una scelta che valorizza al massimo gli aspetti estetici delle nuove tecnologie digitali), procede stavolta indietro nel tempo, nel XIX secolo, quando il paesino di Schabbach viveva l’ultima fase della sua storia feudale, in una Germania ancora costellata di staterelli e contesa dai signorotti di campagna. 

Il film, che è una riflessione su tutti gli archetipi del cinema classico europeo e americano (l’atmosfera onirica che attraversa il film rende omaggio tanto al realismo socialista quanto al western classico) trae spunto dai percorsi tragici di due fratelli proiettati verso un altrove che possa emanciparli dalla miseria della propria condizione. Una riflessione sulla vita, il tempo e le circostanze. Massimi sistemi che si interrogano sul mistero più enigmatico dell’arte cinematografica. La vita che vediamo ogni qual volta rappresentata sullo schermo - in fin dei conti - è in una certa misura vissuta o è sempre, e soltanto, sognata?

Qualche settimana or sono, Reitz, ha presentato il film al cinema Farnese di Roma insieme al suo promoter italiano della prima ora: il germanista Giovanni Spagnoletti. Nel corso della serata, in una sala gremita, con il pubblico ancora ipnotizzato dal film, è intervenuto in chiusura anche Enrico Ghezzi che ha suggellato l’incontro con una frase memorabile. “Heimat è un film girato tutto in soggettiva. Dalla soggettiva del cinema”. Una frase da cui si sviluppa, volendo, anche questo corollario: “La soggettiva del cinema è la storia”.  Un filo rosso, questo, che lega insieme tutti i momenti del progetto e che risulta marcato ancor di più in questo suo ultimo e definitivo testamento. Mai come stavolta ci rendiamo conto di come Reitz abbia nominato come proprio erede universale la stessa storia del cinema. Ed il pubblico, come sempre, è chiamato a testimoniare.

 

 

20-06-2015 | 01:18