Il poeta ha "dio dentro"

Una pulsione antica quanto l’uomo, nuova quanto la capacità dell’animo di rinnovarsi sotto lo sguardo stregato della meraviglia. Un codice di varianti impazzite. La poesia spalanca orizzonti, svuota e ammalia, è Arte cristallizzata in parole e immagini. Vessillo di ribellione intellettuale o vassoio da portata per le ideologie del potere. Un rito ancestrale, indorato di sacralità: in Platone l’ispirazione poetica è entusiasmo, parola greca composta da en (dentro) e teòs (dio). Il poeta ha il “dio dentro”, compone ebbro di afflato divino, guidato da un estro di origine immortale.

La trattatistica letteraria dell’antichità classica giunta a noi si riduce a due soli esempi: Sul Sublime, anonimo, e la Poetica di Aristotele, mosaico composito di riferimenti ad autori noti e ignoti, a opere tramandateci e ad altre perdute per sempre. La Poetica è straordinariamente innovativa, Aristotele è il primo a concedere una veste positiva al concetto di poesia come mimesi, imitazione e insieme creazione. La poesia tragica è imitazione delle azioni degli uomini nobili, quella comica è mimesi del ridicolo e di uomini volgari, l’epica di fatti solenni. Di ognuna di queste forme poetiche si scandagliano origini e sviluppi, caratteristiche formali e contenutistiche. Mai nessuno aveva puntellato il fatto artistico di discrimini così netti. Mai nessuno aveva rintracciato nell’arte la genesi della catarsi, che è liberazione dalle passioni irrazionali. La poesia diviene caduceo con il quale l’anima si spoglia del guscio di pulsioni inutili per ritrovare se stessa, intensamente e semplicemente.

Attorno al (presunto) secondo libro della Poetica si incardina la successione di omicidi alla base della trama narrativa del capolavoro di Umberto Eco, Il nome della rosa. Ambientato in un’abbazia benedettina di epoca medievale, il monaco Guglielmo da Baskerville, che nell’omonimo film del 1986 ha il volto di Sean Connery (nella foto), e il novizio Adso si addentrano negli inquietanti misteri della biblioteca, assistono alle morti di alcuni confratelli, causate dal libro aristotelico, come si scopre alla fine. Qui ci sarebbe la trattazione della poesia comica (nella realtà Aristotele non ha mai scritto un secondo libro della Poetica), che Jorge, l’anziano monaco cieco autore dei delitti, vuole nascondere a occhi indiscreti e immaturi, perché «qui si ribalta la funzione del riso, lo si eleva ad arte, gli si aprono le porte del mondo dei dotti, se ne fa oggetto di filosofia e di perfida teologia», perché «il riso è la debolezza, la corruzione, l’insipidità della nostra carne».

Aristotele con la Poetica, opera congeniale alla portata enciclopedica della sua filosofia, dimostra – ed è il primo a farlo nella storia – che, oltreché farla, si può parlare di poesia, indossando i guanti della critica e del giudizio estetico. Inaugura con autorità un sentiero di riflessioni teoriche longevo, che ingloba tra gli altri i Discorsi dell’arte poetica di Tasso, le considerazioni di Hegel e Schiller, la teoria pascoliana del fanciullino.

Oltre i canoni e le tendenze, oltre il linguaggio spicciolo o altisonante, le metafore o il realismo, la poesia rende “umani, troppo umani”, illumina nascondigli interiori reconditi, dispiega sulla pagina pulsioni, sospiri vacui, ricordi atavici.

 

 

22-03-2015 | 11:30