Il pittore che dipingeva solo gatti

Louis Wain, pittore inglese, personaggio assai bizzarro, fu il folle ideatore di una favola inquietante, che si sovrappose alla realtà fino a fagocitarla. Vicenda umana meritevole di essere narrata, già a partire dal contesto vittoriano londinese, che gli diede i natali nel 1860. Di padre inglese e madre francese, a completare il quadretto famigliare cinque sorelle variamente disturbate e una governante che poi sposò, egli visse in gioventù circondato da donne, come personaggio di una fuligginosa cartolina dickensiana, dal tratto vagamente stucchevole. Immaginiamo: carta da parati a fantasia floreale, stampe alle pareti raffiguranti la caccia alla volpe, tè servito in porcellana alle 17.00 con biscottini al burro, caminetto sempre acceso, dinnanzi al quale s’arrotola sornione il gatto di casa, e via di britannici stereotipi.

Affetto da cheiloschisi (labbro leporino), dettaglio che ebbe un peso negativo nei rapporti sociali, il giovane Louis sembrava destinato a un’onesta carriera da artista figurativo, come mestierante minore del pennello. Si specializzò in paesaggi bucolici, scene di ruralità arcadica e soprattutto animali, dapprima con predilezione cinofila. Decorativismo panteista da salottino borghese, nulla più. Agevolato da una notevole capacità tecnica, che gli permetteva di rendere anche il dettaglio più minuto, Wain non faticò a trovare opportunità di lavoro. A discapito del nome, sempre snobbato dalla critica “illuminata”, il suo segno preciso giunse a pubblica notorietà grazie alla prolifica attività di illustratore, anche nel redditizio ambito delle riviste e dei libri per fanciulli. Confortato quindi dalla crescente popolarità, tentò come molti l’avventura americana; nonostante plausi e prestigiose collaborazioni oltreoceano, tornò in patria mestamente squattrinato. L’affarismo cinico nuovayorkese non s’attagliava affatto all’ingenuo candore dell’artista.

Rimasto vedovo, dopo soli tre anni di matrimonio, Wain manifestò dopo quel lutto segni di squilibrio mentale, insanabili tormenti peraltro già latenti e strettamente connessi alla sua arte. Fu così che il micio di casa divenne prima elemento di affettuoso conforto, quindi indiscusso protagonista di una trasposizione iconica totalizzante. Reiterazione che celava forse una pratica d’auto-terapia? La simbiosi compulsiva con il soggetto principe dei suoi quadri, conservava, dietro l’innocenza fanciullesca, qualcosa di preoccupante: gatti, gatti e ancora gatti. Felini domestici, al principio ritratti realisticamente, poi in curiose pose antropomorfe - intenti a fumare, a giocare a poker al club, a fare salotto paciosi – infine, di pari passo all’aggravarsi dell’ossessione, mutanti in allucinate composizioni al limite dell’astrazione. Pop inconsapevole prima della Pop-Art, acidi cromatismi molto prima che gli acidi deglutiti determinassero lo stile psichedelico anni ’70, il tutto senza mai perdere la scrupolosità dei particolari. Anzi, accentuandola fino alla maniacalità, fino all’alterità. Quel piccolo mondo miagolante, simulazione animalesca della borghesia inglese e al contempo fuga sognante in un immaginario privo di asperità, stava per implodere. O forse esplodere, in ornamentale deragliamento.

I gatti sorridenti, dai grandi occhi languidi, si trasformarono pian piano in bizantini ricami, in labirintici arricciamenti, in puro decoro ipnotico. Dell’animale domestico non restava che l’idea fissa, sempre più chiusa nella mente dell’autore. Non era sperimentazione d’avanguardia, bensì la manifestazione morbosa di una situazione chiaramente sfuggita di mano. Fatale giunse il ricovero in ospedale psichiatrico, fatto che tuttavia non interruppe l’attività pittorica. Circondato dall’affetto di celebri e sconosciuti ammiratori, vieppiù sodali della causa gattesca, l’illustre paziente cedette alla schizofrenia e quindi ad una serena degenza ultradecennale. Evidentemente l’artista era precipitato dentro il mondo da lui disegnato, inghiottito come Don Chisciotte nel suo stesso libro colorato. L’abbraccio del cavallo di Nietzsche è forse paragone inopportuno. Tuttavia, così come i Ditirambi di Dioniso disintegrarono la struttura formale, filosofica, del pensatore tedesco, così gli ultimi dipinti di Wain si caratterizzarono per l’inspiegabile decomposizione della figura. In entrambi i casi, la follia trovò nell’animale il lenimento ultimo, nell’enigmatico addio alle briglie della ragione.

Assai disordinato lontano dagli attrezzi del mestiere, Louis Wain potrebbe essere paragonato al nostro Ligabue, in quanto ad attitudine naif e a noncuranza riguardo al proprio tornaconto. Quadri non datati, titoli assenti, archivio pressoché inesistente, maldestra gestione dei diritti d’autore e degli affari, resero arduo il discernimento tra originali e falsi, nonché l’ordinamento cronologico negli anni successivi alla sua scomparsa. Sta di fatto che mai smise di suscitare interesse, invero trasversalmente. Molto amato da istrioni dell’underground musicale – come Nick Cave e David Tibet, entrambi collezionisti - il pittore dei gatti può essere definito un piccolo profeta, decisamente in anticipo sui tempi. Soppesando gli attuali trastulli fotografici ad uso social, sorge spontanea una domanda: fu davvero un folle o lo è la nostra epoca, che del gattino immortalato ne ha fatto un’invasiva ossessione? 

 

 

18-05-2017 | 12:09