Il fascino discreto della democrazia

“Oggi è la festa della democrazia, che ritorna in Europa. Oggi festeggiamo e cantiamo per superare la paura e i ricatti”. Così Alexis Tsipras ha parlato ai cittadini greci accorsi a piazza Syntagma il 3 luglio scorso, prima del referendum di ieri, sostenendo “no” e poi votandolo. Insieme a lui il 61,3% del popolo greco, chiamato alle urne a decidere se approvare il piano di tagli e aiuti proposto dai creditori ad Atene.

Messa da parte la gravosa questione del debito pubblico greco, delle responsabilità di uno Stato che ha truccato i conti per entrare nell’UE e dei suoi inflessibili creditori, le possibili ripercussioni del referendum sulla moneta unica, è opportuno constatare come sul campo europeo si sia verificato lo sconto tra l’oligarchia tecnocratica e burocratica di Bruxelles e la democrazia greca, imperfetta e universale. Il referendum ha rappresentato una positiva occasione, al di là di quanto accadrà nei prossimi giorni, di esercizio della sovranità popolare. Lo strumento esemplare della democrazia torna alla ribalta in un momento delicatissimo, torna a brillare esemplarmente nella sua patria naturale.

La democrazia nasce ad Atene nel corso del V secolo a.C., quando una serie di riforme stabilisce che la partecipazione attiva alla politica debba essere garantita a tutti i cittadini, senza distinzioni di classe o censo. Mentre prima a governare erano gli aristocratici, i signori di nobile nascita con i quattrini, che frequentavano i simposi e discutevano con chi allearsi e quali artisti finanziare per le loro opere d’arte, con Clistene, Pericle, Efialte una strada nuova viene battuta ad Atene. Qualunque cittadino può essere eletto a sorteggio o votato dai suoi concittadini e diventare magistrato, membro dell’Assemblea popolare e del Consiglio cittadino. Qualunque cittadino eletto può, per alzata di mano, approvare leggi, sancire una dichiarazione di guerra o un trattato di pace, gestire le finanze e la manutenzione della flotta e della cavalleria, giudicare nei tribunali questioni ereditarie, politiche o di sangue.

La democrazia è depositaria di un fascino unico: non nasce da una rivoluzione, da un colpo di Stato, ma da un patteggiamento: gli aristocratici concedono al popolo – più o meno di buon grado – la condivisione delle responsabilità politiche, il popolo accetta i valori degli aristocratici (in primis la moderazione e l’ospitalità). Da qui gli scontri dialettici, la diversità che si fa unità, la libertà di prendere la parola in ogni momento, la nascita dei partiti. Non sarà un caso che proprio per tutta la durata del V secolo il teatro, la filosofia, la sofistica, la storiografica raggiungono picchi vertiginosi di successo e bellezza.

Lo storico Tucidide fornisce una spiegazione geopolitica alla nascita del fenomeno democratico: ad Atene manca il latifondo per i cittadini, l’agricoltura non riesce a sfamare tutti. Ci si dedica al commercio sul mare: come tutti hanno la medesima responsabilità sulle triremi così avviene, per concessione, nell’Agorà e nelle Assemblee. Dalla condivisione economica a quella politica il passo è breve.

Platone invece, che – com’è noto – amante della democrazia non lo era affatto, sostiene che la culla della democrazia altro non è che il teatro: qui gli Ateniesi sono liberi di esprimere con grida e schiamazzi, fischi e applausi, gradimento o disprezzo per gli spettacoli ai quali assistono. Da questa libertà di espressione del gusto estetico deriverebbe la libertà del popolo, incolto, distratto e incompetente, di dire qualsiasi cosa circa la gestione della cosa pubblica. Che ad avere questa visione non proprio idilliaca della democrazia fossero molti aristocratici, ne abbiamo prove in opere letterarie di ispirazione oligarchica e nei commenti al vetriolo dello stesso Platone. La stessa parola “democrazia”, scrive a ragione Canfora, fu coniata dai nemici della democrazia in termini spregiativi, intendendo il demos una massa informe di incolti, dagli oscuri natali e dalle occupazioni economiche manuali, quindi poco nobili. Le singole parti che compongono la parola concorrono insieme per la prima volta nel tragediografo Eschilo: in Supplici, quest’anno in scena a Siracusa per la regia di Moni Ovadia, il coro di donne egizie che chiede ospitalità ad Argo (tema vividamente attuale) e la ottiene per volere popolare, chiede al padre, che ha assistito alla votazione, “Come si è arrivati a questo esito?/ Come ha deciso la mano potente del popolo?”. Ebbene, demou cratousa cheir (mano potente del popolo, che vota proprio per alzata di mano) è la prima occorrenza unitaria, di senso pienamente politico, delle tre parole che compongono la parola “democrazia”.

Ad Atene, ieri e oggi, è il popolo a decidere della propria rappresentatività, della propria sorte. Nessun sovrano o aristocratico o primo ministro è delegato a decidere da solo. È il popolo a mettere sui piatti della bilancia sacrifici e necessità, strappi istituzionali e risanamenti. Il fulcro resta sempre la sovranità popolare.

 

 

06-07-2015 | 16:39