Il cacao che ci porta nell'infinito

Autunno inoltrato, le gialle foglie secche cadono e sempre lieti giungono i distinti stereotipi stagionali. Tempo che muta portandosi appresso abitudini conviviali, peculiari al clima e alla tradizione contadina che ancora permea i piccoli rituali quotidiani. Camini e stufe in luogo di ventilatori, vini rossi e pietanze brodose al posto di beveraggi ghiacciati e insalate, il rito di passaggio s’insinua gradualmente, palesando tutta l’incertezza dei periodi mezzani, in attesa del grande freddo.

Fra le richieste, per lo più femminili, che con l’irrigidirsi delle temperature ci si ritrova distrattamente a sentire nei pubblici locali, vi è quella della cioccolata calda. Ora, si dirà, che c’entra questa preferenza? In cosa si diversifica da altre scelte, come ad esempio camomilla, tè, decotti, tisane? E perché mai sottolinearlo in questa sede? Oltre a ciò che tutti sanno, ovvero l’origine non autoctona – a differenza della camomilla – che accumuna il sudamericano cacao ad altre droghe quali caffè e tè, rispettivamente d’origine africana ed orientale, c’è un aspetto curioso che varrà la pena approfondire; apparentemente null’altro che un dettaglio estetico, ma che nella dialettica contenitore/contenuto potrebbe portarci molto lontano, lambendo matematica, arte e filosofia.

Girovagando per mercatini o gettando un occhio su ebay non è difficile imbattersi in splendide scatole in latta, solitamente risalenti ai primi del ‘900, di storici marchi di cacao. Fra le sigle italiane si ricordano Talmone, Venchi e San Martino. Oggetti seriali, tuttavia impreziositi da finissime illustrazioni ancora di matrice Belle époque, funzionali a trasmettere nell’acquirente la seduzione di paesi lontani e l’eleganza tentatrice di un ingrediente esclusivo.

Erano lussi per l’Italia rurale, fino al dopoguerra alle prese con stenti ed arretratezza di matrice autarchica; preziosità d’importazione, spesso olandese, di cui si conservava gelosamente anche la scatola vuota – talvolta per custodire gli attrezzi da sartoria domestica - in questo riscontrando una netta differenza con la contemporaneità: oggi infatti è raro trovare un packaging degno d’essere risparmiato dalla raccolta differenziata. Fascinazioni estetiche d’altri tempi, dunque, applicate a contenuti raffinati provenienti da terre lontane, riconducibili a quelle pregevolezze che un tempo si trovavano in drogheria assieme a spezie d’ogni sorta.

Fra le varie scatole di latta ambite dai collezionisti, però, una in particolare spicca per originalità e significati reconditi. Si tratta della confezione del cacao Droste, raffigurante una badessa nell’atto di reggere un vassoio sul quale è posata la medesima confezione, a sua volta illustrata con la stessa scena e così replicata potenzialmente all’infinito, almeno finché l’occhio regge al rimpicciolimento. Questa particolare iconografia ad uso commerciale è valsa alla marca di cacao l’ufficialità di una dicitura su Wikipedia, quale sinonimo di pittura ricorsiva e di myse en abyme (messo negli abissi o collocato nell’infinito, quale meraviglia allusiva e musicale la formula francese!). “Effetto droste” dunque, a significare l’esito del posizionamento di due specchi messi l’uno di fronte all’altro. Qui la pittura – pensiamo agli effetti allucinogeni de Las meninas di Velásquez, a I due misteri e al doppio ritratto di Magritte (nell’atto di dipingere La chiaroveggenza), oppure alle incisioni di Escher – incontra spontaneamente la letteratura, come magistralmente espresso da Borges in Altre inquisizioni: “Perché ci inquieta il fatto che la mappa sia compresa nella mappa e una notte nel libro delle Mille e una notte? Perché ci inqueta che don Chisciotte sia lettore del Don Chisciotte, e Amleto spettatore dell’Amleto? Credo di aver trovato la causa: tali inversioni suggeriscono che se i caratteri di una finzione possono essere lettori o spettatori, noi, loro lettori o spettatori possiamo essere fittizi.”

Davvero strano dove possa portare una scatola di latta, addirittura alla stramberia di relativizzare il nostro sguardo attraverso la moltiplicazione dei doppi! Aggrappati alla cornice dell’abisso, vittime del nostro stesso occhio, possiamo provare l’illusione della vertigine già al pianterreno, mentre ogni oggetto viene risucchiato da se stesso in un cono infinito ed annullante. Forse non ci resta altro da fare che posare sul piatto il vinile di Ummagumma dei Pink Floyd, degustando una doppia cioccolata calda. Senza soffermarci troppo sulla copertina del disco, però.

 

 

06-10-2015 | 19:27