I meravigliosi 90 anni del "New Yorker"

Eustace Tilley è un dandy elegantissimo, con cilindro nero e foulard bianco. Tiene in mano un monocolo con il quale osserva, con fare disincantato e un po’ snob, il volo irrequieto di una farfalla. Non esiste veramente – è una caricatura, verosimilissima – ma è uscito da una penna che lo ha disegnato per la prima copertina di una rivista.

Correva il 21 febbraio 1925 quando questo weekly uscì per la prima volta nelle edicole. Questa rivista si chiamava, e si chiama, New Yorker, e non c’è persona al mondo che non le riconosca di essere la più inimitabile e raffinata della storia del giornalismo. Eh sì, compie novant’anni proprio oggi questa caso editoriale unico al mondo, il New Yorker, la “rivista delle riviste”, che dal giorno in cui venne stampato il primo numero fu diretta per ben ventisei anni dalla stessa persona, quel celebre Harold Ross che abbandonò la poltrona di comando solo perché il buon Dio lo chiamò a sé. Novant’anni di storia dell’editoria, ma non solo: il New Yorker per anni – e ci auguriamo per tanti ancora – ha dettato il ritmo al pensiero libero planetario, fatto non di certezze ma di idee, stimoli e dubbi: tutti elementi fondamentali affinché l’intelligenza possa definirsi “dinamica”, ossia che trovi nuove correlazioni tra le cose della vita.

In questi gloriosi novant’anni il giornale ha sempre aperto con la rubrica “Talk of the town” (Chiacchiere in città), una rubrica semiseria – più seria che semi – che ha scandito la vita newyorkese per quasi un secolo. E continua a farlo. Poi la politica, osservata sempre da un punto di vista alto (e, anche in questo caso, molto snob), senza mai guardare in faccia nessuno, senza scendere negli inferi del chiacchiericcio politico ridondante, ma elevando le analisi oltre la contingenza delle azioni umane; poi i fatti, i grandi reportage, i ritratti dei grandi della storia. Sempre mescolando serio e faceto: dopo un lungo ritratto di James Joyce magari ti capita di trovare la recensione di un piccolo bar dell’East Village che fa meravigliosi panini alle verdure; accanto a un reportage da una guerra sanguinaria, girando pagina, si trova la recensione dell’ultimo spettacolo off Broadway o dell’ultima opera messa in scena al Metropolitan. Come dire: la vita è un tutto dal quale non possiamo emanciparci senza considerarne il caos dal quale è abitata. I racconti lunghi di grandi autori e, come detto, le recensioni, capaci di delineare il successo o il fallimento di qualsiasi spettacolo o libro che sia.

Le firme che hanno scritto e scrivono sul New Yorker mettono i brividi: da Truman Capote a Tennesse Williams, da J.D. Salinger a John Cheever fino a Woody Allen. Una rivista capace di spingere il popolo americano – diciamo, la middle e upper class – a opporsi alla degenerata guerra in Vietnam.

Un solo italiano è stato vero protagonista nel New Yorker, Niccolò Tucci, che ci ha lavorato per metà della sua vita. Un uomo bello ed elegante, alla Curzio Malaparte – come ha ricordato in questi giorni Furio Colombo – che venne mandato in America da Mussolini per “convertire” i fuggitivi italiani dal Fascismo, ma che finì per convertirsi lui, contaminando – ove ce ne fosse bisogno – la rivista del suo nuovo anti-Fascismo. Un giorno venne licenziato dal direttore a causa dei suoi perenni ritardi nel consegnare i pezzi, gli tolsero sedia e scrivania (così accadeva in America a quei tempi). Allora Niccolò, detto Nika, si rinchiuse nel bagno del giornale e iniziò a scrivere un racconto su un rotolo di carta igienica, passandone pezzetto per pezzetto da sotto la porta, che i colleghi portavano al direttore e che, a sua volta, faceva mettere in composizione per la stampa. Riassunto subito, scrivania e sedia tornarono al suo posto nel men che non si dica.

In novant’anni si è passati dalla carta igienica di Tucci alla bellissima versione per tablet (che garantisce, caso forse unico al mondo, di leggerne tutti i numeri, dal primo del 1925 all’ultimo uscito), al sito internet, senza mai abbandonare la carta. Le copertine del settimanale erano opere d’arte negli anni ’20 e sono opere d’arte oggi, riconoscibili, marchio di fabbrica. E ogni anno, da novanta, il numero del settimanale che cade a cavallo del 21 febbraio riporta in pagina sempre lui, Eustace Tilley, il dandy della prima copertina. Allora buon compleanno Eustace. E buon compleanno a te, rivista più bella del mondo. 

 

 

21-02-2015 | 14:35