Gli occhi di Liz Taylor

C’è stato un tempo in cui le partite di calcio si giocavano a Luglio. 

Le scuole erano chiuse da un anno per la peste, preda dei fantasmi di studenti che amavano, odiavano, sognavano la scuola con la sua placida ricorsività notarile, gli intervalli e le interrogazioni a sorpresa, le interrogazioni a tappeto. 

In quell’anno anomalo aveva anche fatto capolino un altro evento atmosferico che nessuno riusciva a spiegarsi: la pioggia di chiodi. Il governo aveva chiesto il parere di illustri meteorologi, aruspici avevano interrogato il cielo, sondato la forma delle nuvole ma nessuno era riuscito a trovare una risposta, una radice per un fenomeno tanto strano quanto pericoloso. 

Così di quando in quando i chiodi cadevano sulla terra tintinnando, lacerando volti, forando ombrelli, sfregiando macchine. 

La prima volta che la pioggia di chiodi aveva sorpreso Lancillotto Pinotti stava implorando un vigile urbano di non mettergli la multa, implorava come faceva a scuola quando non era pronto per un’interrogazione. Il suo professore d’italiano era buono e spesso si lasciava convincere ma  il vigile sembrava inamovibile, la multa voleva proprio metterla. Poi era arrivata la pioggia di chiodi e i due contendenti erano stati portati di corsa al pronto soccorso. I due uomini dato il forte stress erano stati sedati. 

Erano stati opportunamente curati, le ferite cauterizzate. La prima cosa che aveva visto Lancillotto risvegliandosi dallo stordimento dell’anestesia erano delle mani di donna pittate di rosso scarlatto che si prendevano cura di lui, del suo povero volto tumefatto. Una donna, l’infermiera, stava levando le bende.  Poi era arrivato anche il trillo della voce.

- Lei signor Pinotti è stato molto fortunato, l’hanno portata qui in un lampo…

La voce dell’infermiera risuonava nella testa di Lancillotto, era miele dopo la pioggia di chiodi. Nella confusione Lancillotto sentiva qualcosa, difficile esprimerlo a parole ma quella voce gli era famigliare: da scintilla è diventata fuoco quando vede gli occhi dell’infermiera che amorevolmente si stava prendendo cura di lui. 

Le parole, poi gli occhi, quelli inconfondibili color ametista come quelli di Liz Taylor: quello era il viso di Mia Domani sua musa ai tempi della scuola. 

Mia era la Ginevra a cui Lancillotto aveva dedicato moltissime poesie ma senza successo.  Certi vulcani dormono per molto tempo ma poi quando esplodono sono incontenibili. Tra Mia e Lancillotto era esploso un vulcano di passione: il vulcano era amore e morte, spettacolo e pericolo. Il vulcano era come la peste, contrarre il morbo era questione imponderabile e loro erano stati trapassati dal colpo di fulmine. 

In quel tempo strano e storto i due amanti dovevano recuperare il tempo perduto. Resuscitare i ricordi morti, i compagni dimenticati come bambini smarriti in stazione e l’impeto dei baci. I due vivevano tra i chiodi in un tempo di peste. Il morbo era scoppiato di colpo in città senza un perché, quello era il chiodo più subdolo.

Intanto le scuole continuavano a rimanere chiuse. La coppia viveva la passione scandagliando tra i ricordi condivisi. Lancillotto aveva ripreso a scrivere poesie per Mia, cavalier cortese, cavaliere in rosa.  

Insieme erano una ridda d’emozioni, Mia somigliava a una madonna medioevale, pelle lattea e capelli miele, fuoco d’estate. Mia e Lancillotto salivano il vulcano che era nero come ardesia, nero lavagna, rischiavano il contagio, corteggiavano la morte ma nonostante questo continuavano a salire, ripescando dalla memoria in un incessante lavorio di ricordi, momenti, date, attimi.  

Come quando la scuola aveva fatto festa, una celebrazione folle in un vecchio teatro e alla fine tutti si erano messi a cantare un blues.  Ora si poteva vedere la luna, i due continuavano a salire, a giocare con la morte. Amore e morte sono alunni ripetenti che tornano sempre, come un’interrogazione indesiderata a cui non sei mai pronto. 

Mia e Lancillotto proseguivano a camminare, con la peste che premeva, con lui che ricordava una lapide in marmo che commemorava presidi deceduti: entrambi ne avevano sentito un’attrazione, un’attrazione decadente. 

Una volta arrivati alla cima del vulcano, nella luce di Selene, sentivano il suono lontano di una ghironda o forse era una campanella o il loro vecchio cuore che batteva più forte nel sentire che le scuole avrebbero presto riaperto.

 

 

31-08-2020 | 17:27