Giacometti nell'idea di Jean-Luc Nancy

Marco Vallora: È significativo che all’inizio della mostra si veda una figura scolpita di Giacometti. Dunque dobbiamo tornare al vecchio quesito-dilemma, che Breton pose violentemente a Giacometti: “Ma basta! Lascia perdere! Smetti di tormentarti sul volto umano. Non ce nulla di più semplice che rifare un viso”. E Giacometti che risponde: “Non è vero, non c’è nulla di più drammatico, di più impossibile, che ritrarre un volto umano oggi. Anzi, è quello il vero ‘dramma dell’artista moderno”. E reagisce soprattutto con quella memorabile pagina, la lettera a Pierre Matisse, 1948, in cui descrive l’attività del pittore che deve dipingere quel breve tratto tra la bocca e il naso, tra narice e narice, come l’entrata avventurosa dentro un deserto inafferrabile: un vero Sahara. “La forma si disfa, restano solo delle particelle, dei granelli che vorticano su un vuoto nero e profondo. La distanza tra un lato e l’altro del naso è come un Sahara. Nessun limite, niente da fissare, tutto che sfugge”. Questo pare decisivo: la volontà ossessiva di un artista, che vuole ancora ‘descrivere’, esprimere un volto, e che per definizione poi lo distrugge, progressivamente, mentre lo sta plasmando. Assalito dall’angoscia della forma.

Jean-Luc Nancy: Certo, lo distrugge, il volto, ma è molto complicato tutto questo, perché lo distrugge solo nel senso, o meglio, alla luce della vecchia rappresentazione. In particolare in questo busto del fratello Diego, il viso diventa assolutamente piatto, come una specie di lama in verticale. Ma allo stesso tempo si può capire benissimo che questa lama, che ha un unico spessore, ridottissimo, praticamente senza la larghezza classica di un volto, vuole essere, comunque, il modo caparbio di mostrare ancora e proprio un viso. E in più uno sguardo. Come qualche cosa che avanza verso di noi, che si addentra, che penetra…

MV: Potremmo dire che ci punta contro, quasi come una freccia…

JLN: Si, ecco: una freccia. Ma non si può pero fare astrazione sul fatto che comunque sia ancora un viso, un viso umano. Ovviamente ci si può totalmente dimenticare del fatto che si tratta di Diego, ancorché Giacometti metta, nel titolo: ‘Testa o busto di Diego numero X”, adesso non ricordo nemmeno più. Ma è importante che lui voglia segnalarlo, registrarlo. Proprio per questo ho voluto Giacometti all’ingresso della mostra. Perché rappresenta un po’ il primo istante storico di questo ribaltamento della questione del viso. Sì, forse il volto è andato, ‘è stato’ perduto, ma appunto, bisogna ritrovarlo. Ma non ritrovarlo guardando indietro, semmai in avanti. Bisogna re-inventare il viso umano. Perché forse, da allora, nell’arte contemporanea, c’è stato un primo periodo, anche ben dopo Giacometti, sto parlando degli anni ’60, ’70, ‘80, dove ha dominato questa distruzione letterale dei visi: volti sbarrati, lacerati, rotti.

MV: Sì, schiacciati, schiantati dall’abbandono delle forme, o programmaticamente rovesciati…   

JLN: Ad esempio con Arnulf Rainer… 

MV: E, ovviamente, con Baselitz, che rovesciava…

JLN: Sì, materialmente ribaltati, di sopra in giù. Ma mi sembra che ci sia anche qualcosa di più contemporaneo, diciamo che da 20 o 30 anni ormai accade anche dell’altro. C’è meno accanimento nel rovinare il viso e, semmai, invece una ricerca di come far emergere un ‘altro’ tipo di viso. Allora si passa attraverso dei visi molto classici, semplici, ma che proprio per questo, venendo ‘dopo’, pesano per il loro immobilismo, la loro presenza quasi un po’ inquietante o fantomatica. 

MV: Magari con quella monumentalità paradossale del volto qualunque, quotidianissimo, che guadagna giganteggiando la ‘tessera’ voluminosa del ritrattone. Per esempio certe immagini ex-jugoslave o di Jeff Wall, dell’olandese Rineke Dijkstra…

JLN: Tenendo anche conto del grande interesse per la molteplicità, per gli scatti in serie. Le grandi serie, appunto, Boltansky, Marlène Dumas, Rogier Mulder e Thomas Schütte. Moltissime serie, sì. E qui al Mart avrei voluto avere la serie - ma non ce l’abbiamo fatta - di Chris Marker “Viaggiatori”: una serie formidabile, con delle persone ritratte accanto a dei quadri antichi. Ma la questione della serie è, credo, davvero importante, in sé, perché è come se si avvertisse, nella percezione artistica contemporanea, un bisogno di moltiplicazione. La moltiplicazione che crea sia una dispersione del viso, in una pluralità di volti, ma allo stesso tempo rende ancor più sensibile la ricerca, non tanto di un viso singolo, ma di ciò che c’è di comune in ogni volto, che c’è in tutti. Quindi, credo che ciò che sia veramente importante, da mettere in luce, è che oggi forse, il ritratto - che non è più veramente e soltanto ritratto - è piuttosto pittura di viso o pittura di figura. E infatti non so nemmeno come definirla, se pittura di volti, o di figure, o, a volte, di trasfigurazione. Nel senso di configurazione, di uno sfiguramento…

MV: Ma lei pensa, comunque, a una sorta di ripensata neo-icona moderna, nel senso proprio bizantino, di ritorno ad un volto non-espressivo?

JLN: Sì, sì, non c’è dubbio. Si può parlare di icona, di contro-icona, se con icona ovviamente s’intende un’immagine attraverso la quale si ristabilirebbe un rapporto effettivo con il Sacro. Perché in fondo è questo che distingue l’icona dalla pittura e il ritratto nostro, moderno. Ma anche che lo differenzia dall’Idolo, al tempo stesso, perché colui che prega l’icona considera tutto il resto della pittura come un idolo da rinnegare. Colui che fa pittura non considera la propria pittura come un idolo ed invero nemmeno come una icona. Chissà se torna l’idea di icona in senso antico, sto riflettendo… Sì, ad esempio, se nella mostra prendo il video di Mark Lewis, e lì in effetti c’è una donna immobile, statica, ed è la telecamera, la videocamera, che si avvicina e si allontana, così che dietro a lei mutano le stagioni, cambia il paesaggio. Siamo in primavera, poi ecco che è inverno, il mondo cambia e questa donna è sempre li, non dice nulla, non si muove, eppure questa donna respira, è viva, si vede il suo petto che si muove, indizio che sta respirando. Ecco qui, in effetti, c’è una certa forza immobile che è dell’icona, perché lo spettatore si deve rifare, rivolgere a una presenza, che potremmo definire ‘spirituale’ di questa donna.

 

(Fine seconda parte - continua)

 

(Traduzione Maraia Contardo Bocchia e Marco Vallora)

 

 

15-05-2014 | 01:36