Fondamenta degli incurabili
Fondamenta degli incurabili, del poeta russo Iosif Brodskij, è divenuto lentamente un piccolo classico, popolare ed elitario allo stesso tempo; volumetto amato, consigliato, bisbigliato all’orecchio, tramandato, citato anche quando non letto, regalato a Natale, buttato lì misteriosamente per far colpo, solitamente come omaggio alla bramata donzella erudita. Ma di solito è il contrario: è un regalo da femmina. Copertina d’un colore inclassificabile, tra il tenue marrone pastello, il grigio e l’écru, enigmi cromatici dell’eleusina Piccola Biblioteca Adelphi. Curiosa storia, quella di un saggio lagunare, commissionato al poeta da un ente parastatale (l’Ente Ministeriale Consorzio Venezia Nuova) nel 1989, due anni dopo il conferimento del Premio Nobel per la letteratura, quando già l’autore era cittadino statunitense. Figlio d’ebrei, vittima di persecuzioni comuniste, di costrizioni in ospedali psichiatrici o direttamente spedito ai lavori forzati, per l’accusa di parassitismo nell’Unione Sovietica degli anni ’60; quindi esule, pur insofferente al vittimismo, caso a parte come tutti i poeti, libero d’emigrare grazie alle pressioni esercitate da Anna Achmatova, dal giro dei suoi “orfani” e in seguito dall’attivismo di Jean-Paul Sartre. Insomma, una di quelle vite straordinarie del ‘900, irrigate d’inchiostro faticoso, all’epoca in cui l’impellenza di scrivere era tutta un’avventura, vissuta tra guerre e persecuzioni, tra ortodossie ideologiche e incomprensioni da pagare a caro prezzo. Valigie e imprevedibili approdi, prigionie e sogni di libertà, altroché “mestiere”. Si trattava di sopravvivere, col fardello d’una vocazione non spendibile, o quantomeno non comprensibile nell’immediato.
Hai fatto caso lettore? Manca l’articolo, davanti a quelle Fondamenta del titolo, come se l’autore se ne fosse voluto sbarazzare di proposito, togliendo di mezzo l’annuncio turistico, la pompa magna o la semplice precisazione, lasciando invece come evocazione silente le famose zattere dirette all’irredimibile, sulle quali sono posate le parole. Frasi che ondeggiano ubriache nel lido, eppure avide nel cogliere il risaputo, ma detto in modo diverso. Già, forse perché la Venezia confidenziale narrata da Brodskij, così pregna di umori algosi e straniamenti invernali, prende da subito il ritmo indolente di un’umidità da retrobottega, finge di perdersi in un labirinto liquido d’affabulazioni - a tratti flusso di coscenza a tratti elegia messa in geometrie implacabili, in toponomastica - come se del pesce catturato non fosse rimasta che la lisca. Ma Venezia non si fa spolpare dal neofita, come dal premio Nobel, cela le sue palafitte di legno sotto i decori e sovrasta il narratore, concedendogli com’è lì dell’arte, solo il mestiere di ricamare a lato. Saba e Majakóvskij, Montale ed Ezra Pound, (bistrattato più del lecito, invero con poca eleganza) sigarette MS e chinotto, la finta ingenuità in vaporetto di uno scafato osservatore: “Così, chi è elegante è dei nostri, ignari del mondo”. Poi donne, guide nautiche iscritte al Partito Comunista Italiano, trasfigurate in sirene e gondole, fili d’Arianna smarriti nella bruma. Quella del poeta russo è geografia di un pellegrinaggio sbilenco, oriente dorato scrutato da memorie provenienti da San Pietroburgo, aqua regis, la fiaba alchemica degli elementi: il liquido che diventa solido, meste acque orizzontali che si trasformano in marmi ascendenti.
Che siano musiche, teatri d’assi e stucchi, fasti rifatti, ricevimenti, olfatto che patisce il marcio e pettegolezzi di calle, stamberghe e vicoli ciechi; che siano pensioni kitsch, leoni fuori savana ma miniati in vangelo, la perlustrazione di Brodskij ribalta l’assioma turistico (“…e poi mi sanno ai nervi le mandrie in pantaloncini”), pur tenendone sempre conto, con piglio realistico, da oculista. Bellezza contro il tempo, l’inganno sublime, impenetrabilità dietro la scenografia lagunare, insomma quella relatività proustiana del viandante, rispetto alla quale la solidità prevaricante dell’oggetto architettonico scrutato – come in un sogno ingestibile, come il passato sempre perduto e ritrovato – si fa pietra e impalpabile alterità. Veglia sottomarina e immutabilità. Venezia è forse una città? No. Venezia è quel mistero che potresti definire, una volta fatta indigestione di luoghi comuni, standotene zitto. Un supplizio estetico, una meraviglia letale, la cartolina che diventa leziosa per capriccio. Quella parola che non c’è, perché celata nell’esperienza, nei passi attraversando calli, ponti, in un accumulo di storia e tentativi randagi o, come scrive il poeta risolvendo seccamente: quell’essere ciò che si vede.
Venezia frigida, umettata, disponibile e impenetrabile, soppalco per omosessuali in pose decadenti (si, nelle Fondamenta è citato anche il Visconti-Mann di Morte a Venezia). Quindi elogio della nebbia regolatrice, quel lasciamo perdere levantino, le finestre aperte o chiuse del ghetto. Come un tunnel scavato da un cieco che cammina a memoria, segreti d’interni nobiliari, affrontati per senso del dovere, tra sprovvedutezza e snobismo, da uno straniero che capita lì sempre per caso. Venezia esule, come una cosmogonia ribaltata, sponsorizzata dalla Kodak. Poi lamentazioni per le chiese chiuse di notte, il bar alla stazione razionalista, muffa, piscio negli anfratti, l’occhio invaso d’acqua, salina come lacrima, nebbia che si fa batavica, l’adattamento faticoso a una città che paradossalmente ti prosciuga, ingannandoti. Inaugurandoti, nelle ossa e nella vista. Oggetti preziosi o dozzinali sul bilancino del mercante, disincanto di un apolide, affogato a sua volta nel servizio di porcellana urbano, riemerso in qualche melodramma, latrine e broccati, chissà. Laguna specchio di Narciso, lì dove orizzontale e verticale stordiscono, come quel lusso d’essere doppio ippocampo: messo nel cervello e nell’acqua, allo stesso tempo. Metafisica degli abissi riemersi in dedalo.