Esercizio d'ammirazione per Ceronetti

C’è un problema: non si può fare sfoggio d’erudizione a proposito dell’erudizione, a maggior ragione quando personificata. Non è solo questione tautologica, di ripetere appesantendo, di rimasticare il già scritto, di parlarsi addosso ad uso elegia; è questione di gusto e di pudore. Come nel caso di un atto d’ammirazione, putacaso rivolto a Guido Ceronetti. Uno che quando tutti erano comunisti per convenienza o moda, preferì soprassedere alle direttive dei tempi plaudenti. Uno che quando tutti erano per un mondo migliore, non s’accontentò di mettersi una mano sugli occhi, ignorando pavidamente l’ingenuo motteggio, bensì non lesinò profusione di disgusto. Concionargli appresso avrebbe qui un ché di parassitario, quindi meglio tergiversare nella pura adorazione. Per uscire dall’impiccio, stante pure la vastità inaffrontabile dell’opera - poetica, filosofica, drammaturgica, giornalistica, traduttiva, artistica – la si butterà in vacca al pascolo, con circospetta riverenza. “Nato a Torino nel 1927”, si legge nella biografia di un irregolare che non ama l’autobiografismo e tanto meno i luoghi comuni da “bicerin”. Prima che l’anagrafe fosse deturpata da termini quali “cittadino del mondo” o “vive e lavora tra Poggibonsi e New York”, questi erano riferimenti importanti.

Nonostante Ceronetti si definisca “scrittore italiano”, aborrendo esplicitamente le definizioni etno-localistiche, tanto d’andarsene poi a vagabondare altrove, un filo rosso caratteristico permane. Cognome che sa di chiesa in penombra e di fabbriceria. Flebile traccia d’archivio comunale, memoria di un esilio dalla città, così stravolta negli anni dalla vacua modernità. Passi a ritroso sotto i portici ordinati, nella geometria romana del capoluogo sabaudo, in quell’atmosfera preindustriale e ottocentesca, monarchica, al limite pure esoterica ed arcana, ancora presente nell’aria, al di là del dato architettonico visibile. Bellezza cosiddetta parigina e formalismi da galateo, modi affettati, fini ipocrisie. Eleganze resistenti alle incessanti ondate immigratorie, queste ultime denunciate dallo scrittore come infauste, tanto da far scattare l’allarme rosso del corretto pensiero, sempre inutilmente all’erta. Lo stereotipo progressista vuole infatti il cittadino modello – figuriamoci l’intellettuale – ligio alle disposizioni, arrendevole all’accaduto, passivo dinnanzi ai cangianti lucori della dispotica slot machine globale; Ceronetti invece scorge navi nere, fluttuanti all’orizzonte, ce ne racconta l’approdo, qui e ora. Viene in mente, come contraltare speculare, il basso profilo da salotto letterario di Fruttero & Lucentini, ovvero quella capacità demodé di dissimulare il sapere, inventando sottilissime bizzarrie per dotti passatempi. Viene in mente Giovanni Lindo Ferretti, rifugiato sull’Appennino tra salmi, cavalli e case di sasso. Cose che gli stranieri questuanti metropolitani (e pure gran parte degli autoctoni digitalizzati) non potrebbero capire in tempi ragionevoli: anagrammi affabili, sottigliezze lessicali, stratagemmi e intrighi, rifugi. Discrezione domestica e mondi immaginari, cupezze sottaciute. Poi magari capita come vicinato una famiglia d’africani suonante bonghi, o il rave party ai murazzi, e addio gianduiotti.

Guido Ceronetti, per dire, non ha mai avuto l’aria dell’accademico in cattedra; con quel basco floscio da pittore ambulante e la faccia secca stralunata, a tutta prima mezzo asceta e mezzo Woody Allen, pare essere l’ultima voce credibile, nel siparietto chiassoso delle noiose opinioni mandate a memoria, tutte uguali, tutte indovinate prima di essere pronunciate. Un monaco senza saio, un postulatore di ematomi sull’asettica e levigata superficie dell’epoca nostra. Esordì coi burattini nel Teatro dei sensibili, già quella una forma di rappresentazione demiurgica della vita, con declinazione fanciullesca, artigianale. Nella sua eclettica opera letteraria c’è tutto l’umano sotto umano, però ordinato come i colori dal fioraio o le pagnotte dal fornaio. Cioran ricambiato nel prendere atto dell’assordante assenza di Dio (il pensatore rumeno gli dedicò un capitolo di Esercizi d’ammirazione), assonanze di disincanto col reazionario colombiano Nicolás Gómez Dávila, Ernst Jünger anarca alleato dietro cavalli di frisia, con Céline dalla parte sbagliata per amor di coraggio; poi alchimia e fughe mistiche, la patafisica spiazzante in coriandoli ed il cabalistico ascendente sulla Parola. Quella, per l’appunto: maneggiata per ravvivare mondi d’ambrosia e frattaglie, oppure scagliata come freccia infuocata nel tirassegno delle pigrizie mentali, dei pecorai tragitti brevi. Scorciatoie sempre aborrite. Contro i mestieranti pappagalli, contro la comodità del rispondere “OK”, contro il riduzionismo utilitarista del frasario mercantile, contro il giardinetto della villetta a schiera confinante con il centro commerciale in un tutt’uno d’alienazione. Contro il letamaio smerigliato, nel quale siamo sprofondati, senza averne piena consapevolezza. L’epoca nostra parla male e scrive ancora peggio, forse perché non ha più nulla da dire? Qualcuno dovrà pur dirlo, a maggior ragione quando la collettività si trastulla con le cazzate della cronaca.

Ceronetti lo scrive da sempre. I preservativi del quotidiano contro gli abissi del pensiero, come rituali d’attesa collettivi, di non si sa bene che cosa. Difatti nei suoi libri c’è tutta una liberatoria disillusione, anche quando declinata nell’invettiva: ludico dopo aver toccato il fondo, malinconico labirinto con indicazioni per l’uscita, quando sarebbe consigliabile restare imprigionati dentro. Tuttavia non si è mai del tutto convinti, nell’atto di riporre il libro nel suo vano, una volta letto, dell’eventualità di averne tratto profitto. Scritti splendidamente inutili e contromano, esplorazioni non funzionali al lieto fine beota, se non fosse per la casacca Adelphi si direbbe senza dubbio carbonari. Scritti sinceri per esiti nefasti. Strali. La libertà, una volta usciti dal mito, è più un fardello che altro: senza disciplina, senza regole, senza codici da tramandare, si sperpera in rimpianto, si scioglie a minuti, evapora in baccanale di pixel. Enigmi, acrostici, pseudonimi, balletti d’inchiostro sui significati, tendenza umanista all’autopsia, sempre controvento tra le pieghe di un disastro camuffato da gaio girotondo. Perché poi la vita attorno ha cominciato a fare davvero schifo, non solo a Torino. Come un purè d’inglese riscaldato, da conferenza stampa, che fa tanto “al passo coi tempi”; è tutta una fortezza invalicabile di luoghi comuni, rincoglionimento collettivo da smartphone, obnubilamento generalizzato, pestilenza omologante, torri di vetro giganteggianti su città che furono a misura d’uomo. Tutto un grossolano e manesco adombrare. Da Ceronetti partono fulmini. Sono luci.

D’altronde il personaggio è scomodo, pessimista fuori catalogo, da sempre giovane e da sempre vecchio, elegantemente spiegazzato, inflessibile vegetariano, molto prima che la pratica diventasse posa barzotta per talebani della domenica salutista. Soprattutto amanuense veterotestamentario, appartato cesellatore di lettere mistiche, patriota risorgimentale e prezioso reazionario riguardo alla maionese impazzita, ovvero alla fine che ha fatto la civiltà, nella ciotola trasparente della modernità. Si dice così, no? Nichilismo. Guido Ceronetti non è un nichilista, semmai apocalittico, giacché c’è più gusto nella fine già affrescata sulle pietre della Storia, invece dell’estenuante preludio della medesima in fotocopia. Perché poi è tutta questione di salvare il salvabile, di organizzare barricate contro il tempo che divora i propri pargoli, immaginando come epilogo onirico gli eoni, bianchi cavalli dalla falcata più ampia del misurabile. Giungeranno a salvarci forse, oppure spazzeranno via tutto. Guido Ceronetti non ha fatto altro, per tutta la vita, che sussurrarcelo all’orecchio.

 

 

 

20-03-2017 | 10:15