Diana Vreeland, la zarina della moda
Dominus vobiscum, Il Signore sia con voi. Ma se il Dominus ha una vermiglia natura di fuoco, allora Diana vobiscum. Ossia D.V.: Diana Vreeland (1903-1989), pagana zarina dell’estetica novecentesca e pirotecnico oracolo del giornalismo patinato. Perché se la moda è una religione, Vogue è la sua bibbia, tramutato in sacrario dall’edonistica personalità di una rapace distillatrice d’idee, dispensate con funambolica grinta in una cornucopia di lussi eccessi divertissement. Vampeggiante di vulcaniche fatuità, Diana è accoccolata in un bozzolo di privilegi senza spigoli (niente studio, niente lavoro, solo danza): per culla la Parigi della Belle Epoque (Paul Poiret e i Balletti Russi),per padre un gentleman scozzese (Dalziel: in gaelico profeticamente Io oso), per madre una socialite americana (parente di George Washington e Pauline de Rothschild), per marito un devoto banchiere (lo statunitense Vreeland), per dimore due sponde dell’Atlantico tra Londra (Hanover Terrace a Regent’s Park) e New York (Park Avenue). La prevedibile monotonia di una viziata globetrotter dallo sconfinato afflato cosmopolitico? Niente affatto: Madame, seppur depauperata di ogni ammaliante avvenenza, è però incipriata di connaturale charme e ammanta di singolare grazia l’androgina silhouette con sfavillanti capi dell’haute couture francese, divenendo una venerata it-girl del jet set internazionale.
E, come un incanto bon chic bon genre, a un party al St Regis a NY, Diana folgora, con un’allure fiabesca (Chanel di pizzo bianco e rose tra i capelli corvini), Carmel Snow, irrequieta direttrice di Harper’s Bazaar. Inizia così, tra istinto e curiosità, la prolifica collaborazione (1936-1962) con l’allora number one dei magazine femminili, in cui la carismatica Vreeland irrompe con la propria mordace irriverenza, erigendo intorno a sé una divina aura di superba originalità. Prima, durante la recessione, da redattrice folleggia con folate di humour dadanella surrealistica rubrica Why Dont’You?, dispensando sorrisi e scompigli a sognanti fruitori: “Perché non rivestite il portabagagli della vostra auto con una pelliccia di giovane alce?”, “Perché non trasformate il vostro vecchio soprabito di ermellino in un accappatoio?”, “Perché non lavate i capelli di vostro figlio con lo champagne avanzato?”. Poi, nel periodo postbellico, si forgia fashion editor, mitologica figura dall’esplosiva creatività, dedita a ratificare la moderna filosofia editoriale e a scardinare la soporifera grammatica in auge nelle riviste muliebri (beau monde leziosamente infiocchettato, ricette culinarie e ricami per mani di fata), alleandosi in un roccioso sodalizio con il fotografo Richard Avedon e l’art director Alexey Brodovitch, sperimentando il fotomontaggio (le magnifiche gambe di Cyd Charisse sostituiscono quelle delle indossatrici), glorificando scandalosamente il dirompente bikini e patriotticamente il pratico jeans made in USA.
E, come un vibrante aedo dal linguaggio magnetico, setaccia improbabili location per allestire set immaginifici e pubblicare servizi favolosi, illustrando miraggi e suggestioni ed enunciando nuovi trend. È il pionieristico artificio di un giornalismo fantasmagorico, rivoluzionario in forma mentis et modus operandi: tutto incentrato intorno a un arbiter elegantiarum dispotico e autoritario, un demiurgo eversivo e incisivo, una straripante e scombussolante visionaria. È l’epifania dell’inventivo lifestyle d’autore per la donna contemporanea: letteratura musica cinema arte design fashion beauty. E similmente, con lo stesso stregato sguardo rutilante e la medesima epica cifra narrativa, Vreeland scompagina anche Vogue da leggendaria editor in chief (1962-71), sbeffeggiando sarcastica il perbenismo e sguainando, con verve e grandeur, la spavalda tempra di sacerdotessa dell’effimero. Esalta gli orli succinti di Pierre Cardin e André Courrèges; le avveniristiche lamine di Paco Rabanne; l’indocile brigata della Swinging London con la minigonna di Mary Quant, l’ancora sconosciuto broncio di Mick Jagger, le evanescenti esponenti del movimento youthquake, giovane terremoto (Twiggy e Jean Shrimpton). Spariglia le mannequin come un biscazziere le palle su un tavolo da biliardo, stoccando in buca con scaltrita nonchalance: muta ninfe classiche in top model (Lauren Bacall, Marisa Berenson, Benedetta Barzini);plasma deesantificando imperfezioni (il diastema di Lauren Hutton, l’altezza vertiginosa di Veruschka, il naso da Nefertiti di Barbra Streisand); decanta il melting pot (la nera Donyale Luna); estirpa le vetuste cortine dello spettacolo miscelando cantanti e attrici (Cher e Ursula Andress).
Sapida sagace spumeggiante, D.V. è tutta intenta a suggere, con indole e vigore, la folgorante vitalità degli sperimentali Sessanta (sex drugs rock ‘n’ roll), non dissimili, nel boom gassoso, all’effluvio libertario degli ardenti Venti della sua ruggente gioventù, straripanti di proibizionismo jazz esotismo (il focoso tango e le flapper girl, il ghepardo di Joséphine Baker e il taglio sbieco di Madeleine Vionnet). Ma sgomento delle assistenti, spendacciona impenitente, sfornita di politically correct, Mrs Vreeland viene licenziata dalla munifica Condé Nast al declinare di una fastosa epoca di glamour effervescente. Eppure la pensione non è un outfit adatto a un’inossidabile dragon lady: nominata special consultant (1971) del Costume Institute del Metropolitan Museum of Art di NY, ne sovverte immediatamente il lessico espositivo, con metamorfica fantasia da insuperabile pubblicitaria, attraverso mostre sold-out: manichini colorati, aromi spruzzati, accostamenti arditi, nessuna filologia storica. La critica agghiaccia, il pubblico ammicca. D’altronde: “The eye has to travel”, “Gli occhi servono per viaggiare”, Diana docet.
Nel secolo della decadenza monarchica la perturbante Vreeland si è assisa sulla sedia curule del fashion system, autoproclamandosi zarina della moda grazie a un’arguta attitudine da cool-hunter e a una predatoria propensione a sublimare lo sferzare del tempo. Nonché a un gusto stravaganteper eccentrici accessori: intarsia mise dalla sartoriale sontuosità (YSL e Balenciaga) con voluttuosi tripudi di collane etniche, braccialetti rampanti, spille a testa di moro e insidia la perspicace espressione nasuta con l’apotropaico pendente di corno d’avorio e il vaporoso bocchino fumante, brandito come un icastico scudiscio tra le dardeggianti unghie scarlatte. Imbrigliati da questa fiammeggiante femme d’esprit? Allora lasciatevi inebriare da (foto in basso): D.V. (Donzelli, pp. 268, 18 euro) in cui Diana, sgargiante e gaudente, soffrigge ricordi e boutade in un brioso memorandum (dettato nel 1984) esistenziale e professionale; Diana Vreeland. L’imperatrice della moda (Feltrinelli, dvd, 16.90 euro), docufilm concepito come una turbinosa antologia da Lisa Immordino (moglie di Alexandre, nipote della poliedrica direttrice) e corredato della frizzante sinossi Le avventure di un occhio inquieto di Luca Scarlini; Diana Vreeland. After Diana Vreeland (Marsilio, pp. 240, 34 euro), catalogo della recente rassegna veneziana allestita a Palazzo Fortuny con l’illuminato saggio di Maria Luisa Frisa.