Cosa pensava Virginia Woolf di Joyce?

Spesso accostati per la simile ricerca in ambito letterario e per le tematiche di vita interiore affrontate, Joyce e Woolf sono anche spesso visti come “antagonisti” e considerati estremamente diversi nonostante le evidenti somiglianze. Entrambi però hanno scritto numerose pagine di saggistica e lettere (e, nel caso di Woolf, diari) in cui emergono simili intenzioni di sperimentazione con la parola, un simile rispetto per la tradizione letteraria e la stessa volontà di dedicare la propria vita allo scardinamento di cliché e luoghi comuni per trovare sempre l’espressione e la forma giusta per “ricreare” l’esperienza umana.

Nelle lettere e nei diari di Woolf troviamo spesso giudizi e commenti su altri scrittori e scrittrici, inclusi i suoi contemporanei. Tra questi, i nomi più citati sono senza dubbio Proust, l’amico Eliot, e James Joyce. Mentre l’ammirazione per Eliot e Proust è inequivocabile, il suo rapporto con Joyce è molto più controverso e ha generato un dibattito che è ancora aperto e fertile. Per molto tempo i coniugi Woolf sono stati stigmatizzati per non aver pubblicato Ulisse (scrissero a Harriet Weaver che si trattava di una “difficoltà invalicabile”) e Virginia Woolf scrisse spesso commenti molto negativi su Joyce, definendolo, tra l’altro, un “nauseabondo studente universitario che si gratta i brufoli”, un’espressione citata centinaia di volte come indicativa della sua avversione per lo scrittore irlandese:

Dovrei essere immersa nella lettura dell'Ulisse, preparare la mia arringa pro e contro. Ne ho lette 200 pagine finora - neppure un terzo - e mi ha divertita, stimolata affascinata, interessata per i primi due o tre capitoli. Sino alla fine della scena del cimitero; e poi sono rimasta confusa, annoiata, irritata e delusa da questo studente a disagio, che si gratta i foruncoli. E Tom, il grande Tom, lo mette sullo stesso piano di Guerra e pace! Per me è un libro ignorante, plebeo; il libro di un operaio autodidatta, e sappiamo tutti quanto sono disperanti, quanto egocentrici, assillanti, rozzi, declamatori e in sommo grado nauseanti. Se si può avere la carne cotta, perché mangiarla cruda?

E ancora:

Ho terminato l'Ulisse e mi sembra un colpo mancato. Genio ne ha, direi, ma di una purezza inferiore. Il libro è prolisso. È torbido. È pretenzioso. È plebeo, non solo nel senso di ovvio, ma nel senso letterario. Uno scrittore di classe, voglio dire, rispetta troppo la scrittura per ammettere le trovate, le sorprese, le bravure. Mi ricorda continuamente un collegiale inesperto, pieno di spirito e di ingegno, ma talmente conscio di sé, talmente egocentrico che perde la testa, diventa stravagante, manierato, chiassoso, smanioso, desta pietà nelle persone benevole, e in quelle severe semplice noia; e si spera che gli anni lo guariscano; ma poiché Joyce ne ha quaranta sembra poco probabile. Non l'ho letto con molta attenzione; e una sola volta; ed è molto oscuro, sicché non dubito di averne misconosciuto i pregi più di quanto sia lecito. Sento che miriadi di minuscole pallottole picchiettano e tamburellano il lettore; ma un colpo mortale in piena faccia non lo ricevi...come in Tolstoj, per esempio; ma è del tutto assurdo paragonarlo a Tolstoj.

Le opinioni di Woolf, tuttavia, come dimostra anche questa ultimo brano (“non dubito di averne misconosciuto i pregi più di quanto sia lecito”), non sono mai univoche o lineari, e mostrano sempre un atteggiamento ambivalente nei confronti dello scrittore. Tutte le lettere, le pagine dei diari, i saggi e le annotazioni su Ulisse (raccolte da Suzette Hendke nel 1990), rivelano una costante co-presenza di elogio e disapprovazione per Joyce. Come afferma Heffernan, “Woolf sembra non risolversi tra una nascente ammirazione e una testarda avversioneper la sua ‘indecenza’, che sottolinea ripetutamente. Allo stesso tempo, però, l’autrice sentiva che quell’“indecenza” rappresentava precisamente l’esito del completo realismo psicologico. “Gran parte sembra dipendere”, scrive Woolf, “dalla fibra emozionale della mente, e potrebbe essere vero che il subconscio dimori nell’indecenza’”. In maniera molto simile, la scrittrice confida al suo diario: “Ho riflettuto sul fatto che ciò che sto facendo io, probabilmente lo sta facendo molto meglio il Signor Joyce”. Purtuttavia, come leggiamo nelle sue lettere, leggere Ulisse la faceva sentire “legata come un martire al palo”, ed era infastidita dalla “schiettezza del linguaggio” di Joyce, pur essendo, al contempo, “pronta ad ammettere” a T.S. Eliot che Joyce fosse un genio, in misura maggiore rispetto a Ezra Pound e a Wyndham Lewis.

All’interno di questo groviglio di opinioni all’apparenza contrastanti, è dunque fondamentale ricordare, soprattutto, che Woolf sceglie proprio Joyce come esempio rimarchevole di magistrale “narrativa moderna”, nel saggio omonimo “Modern Fiction”:

In ogni caso, è in questo modo che cerchiamo di definire la qualità che distingue l’opera di molti giovani scrittori, tra i quali Joyce è l’esempio più rimarchevole, da quella dei loro predecessori. Essi cercano di avvicinarsi di più alla vita, e di preservare più sinceramente e con più precisione ciò che interessa loro e ciò che li commuove, anche se, per fare questo, devono rinunciare alla maggior parte delle convenzioni osservate dal romanziere.

Il brano è immediatamente preceduto dalla celebre definizione temporale della vita, intesa non come “una serie di lampioncini disposti in ordine simmetrico” ma come un “alone luminoso, un involucro semitrasparente che ci circonda dagli albori della coscienza fino alla sua fine”. Joyce era dunque uno di quegli scrittori, per Woolf, in grado di ricreare tale “alone luminoso”, uno di quelli che, come lei, stava cercando di “registrare gli atomi così come ricadono sulla nostra mente” (“Modern Fiction”). Per Virginia Woolf, Joyce era diverso dai precedenti scrittori “materialisti”, poiché le sue intenzioni erano quelle di “rivelare le oscillazioni di quella fiamma più intima che, fulminea, illumina  i messaggi  attraverso il cervello”(Ibid). Quelle di Joyce sono dunque intenzioni per le quali Woolf esprime apprezzamento ed entusiasmo:

La scena del cimitero [Ulisse], ad esempio, con la sua vivida luminosità, la sua sordidezza, la sua incoerenza, i suoi improvvisi e illuminanti fulgori di significato, si avvicina così tanto, e indubbiamente, all’essenza della mente che, almeno a una prima lettura, è difficile non urlare al capolavoro. 

Siamo di fronte a un’immagine di luce intermittente simile al “faro” woolfiano, una luce che genera improvvisi bagliori e riesce ad afferrare frammenti della nostra vita interiore dalla loro connaturale oscurità. Quei “fulgori di significato” che Woolf avvertiva in Joyce sono gli stessi che troviamo nei suoi romanzi, i quali, a loro volta, rischiarano ripetutamente e in maniera ipnotica la nostra lettura, facendo emergere in noi frammenti esistenziali altrimenti sopiti nel buio. Anche i romanzi di Woolf, infatti, sono concepiti e scritti accendendo e spegnendo le luci sul mondo e, simultaneamente, puntando un nitido fascio di luce sulla coscienza e la vita interiore.

Come afferma la scrittrice in “Modern Fiction”, in una descrizione del romanzo che pare descrivere anche Ulisse, “tutto può essere materia di un romanzo, ogni sentimento, ogni pensiero; ogni qualità della mente e dello spirito vi può confluire; nessuna percezione è fuori luogo”. La scrittura di entrambi, infatti, è in grado di “travolgerci in una panoramica delle infinite possibilità dell’arte” e ci ricorda sempre che “non ci sono limiti all’orizzonte” di tale visione (“Modern Fiction”). Ed è per questo che, quando quest’orizzonte sconfinato si dischiude davanti a noi, la discontinuità luce/buio si trasforma gradualmente in un “alone luminoso, “un involucro semitrasparente” che circonda per intero il nostro essere e abbraccia tutta la nostra esistenza, “dai suoi albori fino alla sua fine”.  E tale immagine descrive appieno sia la sua narrativa, sia quella di Joyce. Ed è più che ipotizzabile, alla luce di tutti i suoi scritti, che anche lei ne fosse pienamente consapevole.

 

 

 

16-12-2017 | 17:43