Cos'è un classico?

Sosteneva Calvino: “D'un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima”. Anche perché “un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”.

Ecco, in questa, che è una delle massime forse più efficaci sul tema, troviamo forse il perché del vero successo di un libro o di un’opera d’arte, che sa travalicare il suo tempo per approdare, in ogni secolo e a ogni latitudine, a una dimensione nuova. Senza mai perdere i suoi significati originari, ma anzi aggiungendone senza sosta di nuovi e imprevisti. Ben al di là, dunque, delle intenzioni dell’autore, quasi fosse calato in un meccanismo di eterogenesi dei fini di vichiana memoria. In un dialogo fecondo e perenne con ogni secolo. E così, ad esempio, da Achille a Ulisse, gli eroi dell’epica (la forma di poesia più elevata, classica per eccellenza), ecco che ci sono simboli e personaggi che attraversano i secoli perché, in fondo, al netto di ogni attualizzazione, sono essenzialmente specchio di noi stessi. Pertanto nel testo d’origine (o, meglio, dal testo d’origine) si possono trarre mille significati, da cui scaturiscono idee e suggestioni, anche, anzi soprattutto, in altri generi letterari, fino agli endecasillabi di Dante o agli ipnotici labirinti narrativi di Joyce. E oltre.

Per comprendere che cos’è un classico, può essere paradigmatica uno dei generi letterari più antichi: la favola. Attestata quasi in concomitanza con le prime forme di scrittura, questa narrazione semplice e incisiva sa sempre stupire, perché i suoi protagonisti sono eterni: siamo, in effetti, noi uomini che ci specchiamo negli animali, che si ritrovano, spesso con connotati simili, in Europa, come in Africa e in ogni altro continente, nelle favole di oggi. E contaminano di sé (si vedano i precedenti interventi di questa rubrica) non solo la letteratura, ma anche i fumetti, i cartoni animati, la televisione, il cinema. Da Harry Potter a Lupo Alberto.

Ma perché Esopo (figura peraltro semileggendaria) può dire qualcosa di nuovo anche nella società digitale? Sosteneva Concetto Marchesi, accademico dei Lincei e padre della nostra Costituzione: “Le storie raccontano cose che accadono, se mai, una volta, le favole narrano cose che accadono sempre”. Perché c’è un’essenza eterna dell’uomo che esse sanno perfettamente interpretare. E ha a che fare con violenze, astuzie, ingenuità ed egoismi che descrivono caratteristiche connaturate in noi. Nell’uomo di oggi come in quello di ieri.

Ma “classico”, come invece spesso s’intende nel linguaggio corrente, non deve necessariamente far rima con “antico”. Ogni epoca esprime i suoi classici. Come negare, ad esempio, che “I promessi sposi” si siano imposti come un classico, a cui attingono lettori e scrittori da generazioni?

Lo stesso Calvino acutamente osserva: “Leggendo Kafka non posso fare a meno di comprovare o di respingere la legittimità dell'aggettivo «kafkiano» che ci capita di sentire ogni quarto d'ora, applicato per dritto e per traverso. Se leggo Padri e figli di Turgenev o I demoni di Dostoevskij non posso fare a meno di pensare come questi personaggi hanno continuato a reincarnarsi fino ai nostri giorni”.

Insomma, “un classico è un'opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso”. Perché sconfina, perché è oltre. Perché è sopra ogni catalogazione effimera. Sconfigge le mode. E parla all’uomo, con l’uomo e dell’uomo. Di oggi e di ieri. Insomma, di ogni epoca. Magari, per dirla con Machiavelli, attraverso la forza di un leone o le subdole astuzie di una “golpe”. 

 

(Dopo un decennale studio della favolistica, approdato nel “Dizionario della favola antica” (Rizzoli-BUR, 2012), Christian Stocchi ha proposto un percorso di ricerca letteraria sul genere esopico, attualizzando i modelli classici, dapprima con “Favole in wi-fi. Esopo, oggi” (Einaudi, 2016) e ora con “Favole dell’ABC” (Einaudi, 2018). Le immagini dei libri sono di Aurora Cacciapuoti.

31-01-2018 | 15:34