Cos'è la mamma canguro?

Giorgia Boselli

Più in là dei quarant’anni ho iniziato  a capire qualcosa di me. Ho capito che quando non mi costringono a fare cose per cui non sono portata, posso garantire grandi permorfance in termini di  intelligenza, dolcezza, empatia, comprensione e fedeltà. Anche per questo ho capito perché da sempre, ovvero quasi diciassette anni vivo, con mia figlia, da sole. Non ho mai corso il rischio di una simbiosi con un uomo, ma nemmeno con lei. Quando era piccina non vedevo l’ora qualcuno me la portasse via per farmi una doccia come si deve, ma poi, appagata e lavata, la vedevo felice tra le braccia di mia madre o di mia sorella o mia fratello e quasi me ne dispiacevo. Anche ora, quando non c’è, mi assale una sorta di nostalgia. Il problema è che ancora non ho maturato difese contro le delusioni, i compromessi inevitabili della vita, le coincidenze ineluttabili o, molto più semplicemente, sono una donna sola con una figlia. Anche se, quando sono due le donne - tipo mia madre - sotto lo stesso tetto, ritengo siano troppe; è per questo che hanno inventato gli uomini, mi dico. Ma non ne ho certezza: “te li devi tenere stretti, Giorgia”, mi diceva mia nonna Tullia, vecchi tempi. Lei poi si chiamava come la figlia di Cicerone e ha sempre letto troppo. A me, fra l’altro, piace un uomo ogni lustro. Siamo franche: gli uomini, spesso con feroce caparbia, hanno la necessità di stare con una che non sappia temperare le matite nemmeno con il temperino elettrico. Proprio Tullia mi fece leggere Natalia Ginzburg che, nel 1948 (attenzione nel 1-9-4-8), scrisse un articolo pubblicato dalla rivista Mercurio che trattava di donne: “Ci sono donne canguro e donne non canguro, ma le donne canguro sono molto di più”. Ci sono donne con bambini e donne senza bambini. Ecco, proprio lì, tra quelle righe, ho letto e riconosciuto la mia paura, per la prima volta. La paura che mi sorprende quando qualcosa non doveva succedere, quando prima di mia figlia mi bastava caricarmi su un aereo, destinazione Birmania, per stordirmi di “altrove”, perché facevo sempre così. Era così che fino a trentadue anni mi difendevo dagli attacchi piccoli e grandi che mi investivano: scappando lontano. Da quando c’è lei è stato più difficile, perché lei aveva bisogno del mio cuore, anche se era un poco bucato. Lo è ancora; non è rotto, è solo bucato. Io dovevo restare, non potevo nemmeno urlare: l’avrei spaventata.  Lei aveva bisogno del mio cuore, quello che quando spegnevo la luce per provare a dormire faceva il suo rumore inconfondibile di mobilio spostato a caso. La solita cazzona, insomma.

 

 

08-04-2019 | 19:08