Com'era intelligente Federico Fellini

Come era intelligente Federico Fellini! Un’intelligenza pacata e ironica che traspare dalle tante interviste che mi sono divorato per televisione approfittando del decennale della scomparsa e di una benedetta influenza. E come mi, ci, manca, ho pensato.

E mi sono riguardato – senza interruzioni pubblicitarie: questo gli farebbe piacere! – Vitelloni, Dolce vita, Amarcord. Sarebbero infinite le cose da dire, ma una, in particolare, mi sembra urgente. In questi tre film, e in molti altri, Fellini ha colto e rappresentato le radici antropologiche del fascismo e delle sue conseguenze nel carattere – se per un attimo mi si permette questa grossolana abbreviazione – del Paese nostro. Un’eterna irresponsabilità adolescenziale – quei perenni pantaloni corti di Titta in Amarcord, che, come lui, non crescono mai – un’anarcoide, anche tenera, cucciolaggine, grulla, e anche – e qui la parola italica per eccellenza ci vuole – «simpatica». Ma che può esistere solo sotto l’occhiuta autorità di poteri accettati passivamente, anche se ridicoli, incancreniti, inseniliti e grottescamente pomposi. Il fanciullino anarchico che è in noi è al tempo stesso uno zelante servo e leccapiedi che vive in uno stato di assoluta indecisione morale.

Come nelle opere dell’ultimo Verdi – Don Carlo e Aida, in particolare – la Chiesa è metafora d’ogni altro potere, è anzi l’unica forma di potere che ogni italiano felliniano riconosce. Tra bisbigli di fiati grevi e svolazzar di sottane paonazze l’homo fellinianus trova l’unico punto fermo del suo continuo divagante, cialtronesco carnevale. Nella sessuofobia cattolica, ipocrita finzione di un’inesistente morale, trova la prurigine che accende le fantasie da tasca bucata. E così il bimbone non cresce mai. Rimane in eterno sotto tutela. E di tutori sembra sempre aver bisogno.

Ho provato a continuare questa esplorazione della mia giovinezza attraverso i film, guardandomi anche La notte di Antonioni. Ma qui, direbbe Oscar Wilde, solo un cuore di pietra può riuscire a non scompisciarsi dal ridere. Per fare un solo esempio: l’intellettuale – già la parola! – morituro, che accoglie in preagonia gli amici dicendo: «Stavo leggendo l’ultimo libro di Adorno!». E come in una gozzaniana Nonna Speranza aggiornata agli anni Sessanta, l’occhio approfitta dei noiosissimi e lunghissimi piani sequenza per indugiare su tutte le buone cose di pessimo gusto che facevano moderno in quegli anni e che affollano, come in un postal market del passato, gli interni antonioniani – l’aggettivo cacofonico è voluto: l’avrebbe usato un critico cinematografico del tempo. Ed ecco la scomodissima poltrona di Breuer, gli interni Casabella e Domus, le copertine povero-chic di Munari.

La Notte è uno straordinario documento di come una mezza borghesia mezza calza amava immaginare di essere. Moderna, ma in crisi, in perenne crisi, di vita, di voglia, d’erezione, di senso e di sensi. Impegnata a ingannare il tempo scambiandosi rade ma ponderosissime stronzate.

 

 

30-06-2014 | 17:06