Cappuccetto Rosso deve morire/2

La prima impressione che ricavò dal colpo d’occhio fu di disordine. Non solo un disordine degli oggetti, ma anche un disordine di idee, come se tutto il subbuglio fosse fuori luogo o almeno fosse fuori luogo un elemento solo di quel subbuglio. Ovviamente si trattava di un’intuizione, di quelle che somigliano all’ispirazione dei poeti, una concatenazione di pensieri così veloce che nemmeno lui ne era stato cosciente. “No, qui è tutto sbagliato” pensò. E l’odore aggressivo del sangue, che avrebbe deliziato Goffredo Parise, scintillò all’attrito con la macchia bianca di un tubetto di farmaci che – probabilmente proprio lei – non doveva essere lì.
L’Ispettore era più concreto e ciò che vide fu esattamente quello che c’era: nel bel mezzo di una “aspra colluttazione” un tubetto di farmaci per terra. Il Direttore era piuttosto perplesso nel vedere l’attenzione con cui l’Ispettore ispezionava la stanza e la flemma con cui il Commissario gettava sguardi casuali tutt’intorno. L’Ispettore aveva visto molte volte il suo superiore imbambolato in situazioni come quella, gli succedeva sempre quando si ostinava su un pensiero sgusciante e ormai c’era così abituato che nemmeno vi faceva caso più di tanto.
L’ingresso si apriva su un corridoietto lungo due o tre metri.
Immediatamente sulla destra dell’entrata c’era la stanza da bagno. Degli effetti personali maschili erano disposti lì come se la trasferta durasse da molto più d’un giorno. Dal portasciugamano cromato vicino al lavabo come da quello vicino al bidet pendeva una sola salvietta.
Il corridoietto si concludeva con la stanza vera e propria, che non arrivava a una ventina di metri quadrati. C’erano due letti singoli avvicinati e un armadio a muro addossato alla parete a destra, quella in condivisione col bagno. Di fronte ai letti un mobiletto su cui era poggiata la televisione, le antine celavano una cassaforte e un frigobar oltre ad alcune altre mensole. Sulle mensole rimanevano alcune creme di uso comune e intercambiabile, come il Prep, una confezioncina di matite con temperalapis e gomma, un paio di dadi e un mazzo di carte francesi.
Sulla stessa parete delle spalliere del letto c’era anche un divano, che all’occorrenza poteva ospitare un’altra persona. Lo spazio antistante il divano era impegnato da un tavolinetto rotondo col ripiano di vetro e due sedie ai lati. Sopra un portacenere e alcune riviste.
Sulla stessa parete del mobiletto della tv, parallelo al divano, un comò con quattro cassetti.
Infine, sulla parete opposta alla porta, l’uscita su un balcone popolato da un tavolo di plastica, due sedie ugualmente di plastica, uno stendipanni – inutile dirlo – di plastica e due sdraio da spiaggia... di plastica.
Tutti i mobili interni, invece, erano in vimini, come nelle peggiori fantasie marittimo-vacanziere.
Il Commissario si guardò intorno per capire come potevano essersi svolte le cose: le lampade cadute, le lenzuola tirate via, il comodino ribaltato, il sangue spalmato sulla terracotta del pavimento come marmellata di ribes su un pezzo di pane abbrustolito. “Colluttazione?”. Si chinò sull’uomo: aveva un vistosissimo taglio sulla fronte, come se fosse stato accoppato. Si guardò intorno, uno spigolo era insanguinato. “C’è caduto su da solo, ce l’hanno spinto o ce l’hanno sbattuto?”.
Poi vide le pillole e si domandò a cosa potessero essere servite. Era una boccetta con nome e cognome, confezionata appositamente dal farmacista per la vittima. La data scritta sopra a penna era recente e la quantità indicata lasciava intuire che, quel giorno, le pillole dovevano essere più della metà. “È stato pestato e poi si è fatto di barbiturici? O si è fatto di barbiturici e poi l’hanno pestato? Oppure, dopo che l’hanno pestato, e fatto di barbiturici?”. C’era anche una forte odore di superacolici: aveva dato fondo al frigobar, le bottigliette erano state buttate nel cestino d’immondizia nel bagno.
«Che mi dice degli accessi alla stanza?» chiese al Direttore.
Questi, visibilmente in difficoltà, gli rispose che «È proprio questo l’incredibile: l’ultimo accesso a questa stanza, prima di quello delle donne di servizio, è stato effettuato con la scheda del signor Lagri. A ogni cliente diamo una schedina personalizzata e l’ingresso qui è stato autorizzato da quell’unica scheda».
«Quindi l’assassino o gli assassini, se fosse un omicidio, potrebbero essere entrati dalla finestra» ipotizzò il Commissario, ammettendo per assurdo che si trattasse di un omicidio.
«Non è possibile, perché il vetro scorrevole è chiuso dall’interno: non lo si può aprire dall’esterno se non sfondandolo» l’informò l’Ispettore.
Il Commissario mordicchiò il sigaro e annusò le lenzuola come in cerca di un qualcosa saltatogli in mente per suggerimento mistico. Dunque si rassegnò all’evidenza: apparentemente poteva sembrare sia una fatalità che un omicidio.
Sembrava una fatalità perché in una camera dove non c’erano tracce di accesso, un uomo giaceva morto vicino a un flacone quasi vuoto di barbiturici. Per cui poteva benissimo essere successo che si era imbottito di pillole e si era sdraiato nel letto, poi per qualche motivo si era alzato e aveva messo a soqquadro la stanza prima di andare a sbattere sullo spigolo tramortendosi.
Però, si diceva il Commissario, se ci si suicida coi barbiturici non s’inscena una colluttazione e non ci si va a spaccare la testa contro un mobile. Di solito ti metti a letto e buonanotte. Se se la raccontava così, quella storia iniziava a somigliare a un omicidio.
«Ci sono delle telecamere a circuito chiuso?» chiese il Commissario al Direttore.
«Solo lungo i muri di cinta del Villaggio».
«Ci sono registrazioni dello spettacolo di ieri sera?».
«Sì, quelle dell’animazione».
«Potrebbe farmele avere?». Quello annuì e andò a prenderle.
In quel momento arrivò il dottor Vargiu, il medico legale di turno quel giorno, chiamato previdentemente dall’Ispettore poco dopo essere uscito dal commissariato. Fra il dottore e il Commissario c’era un legame di stima e di qualcosa di molto vicino all’amicizia. Era un uomo di mezza età, sorprendentemente alto per un sardo e con una prontezza di riflessi davvero ammirevole, unita a un certa spiritosaggine. Non appena entrò nella stanza salutò sia il Commissario che l’Ispettore ed esclamò:
«Che casino».
«Mi sai dire quand’è morto?» gli domandò il Commissario.
«Vediamo un po’».
S’inginocchiò presso il corpo e lo esaminò.
«Purtroppo, per avere i risultati di una visita autoptica degna di tale nome, devi aspettare almeno fino a domani. Ma non ci giurerei. Sicuramente posso dirti qualcosa per lunedì. Però dovrebbe essere morto da circa dieci o dodici ore, fra le 22.00 e le 24.00 di ieri».
Cioè mentre tutti si sarebbero dovuti trovare nell’anfiteatro per lo spettacolo di benvenuto” rifletté il Commissario.
«Intanto me lo porto via. Domani spero di poterti dire qualcosa» spiegò il dottore rialzandosi.
«Va bene. Mi sai dire almeno se si tratta di un suicidio o di un omicidio?».
«Non te lo posso dire ancora. Sicuramente la ferita e l’emorragia non sono la causa della morte. Potrebbero essere i barbiturici che vedo là. Ma allo stesso tempo ti avverto: l’urto col pavimento potrebbe aver causato un’emorragia cerebrale».
Nel frattempo, dalla soglia dell’ingresso, giunse una voce:
«Se non vi dispiace, visto che c’è poco spazio, uscite un momento. Facciamo i rilievi e poi vi lasciamo in pace». Era Piras, il capo della Scientifica.
Il Commissario e il dottore si voltarono. Il primo gli fece cenno di venire avanti.
«Visto che ci siamo lo chiedo a entrambi: secondo voi è stato accidentale o durante una colluttazione?».
Piras e Vargiu rimasero un attimo in silenzio. Dopodiché risposero a turno:
«Per quanto mi riguarda, anche a giudicare dallo stato della stanza, ti direi che potrebbe essere tranquillamente successo durante una colluttazione. Non ti so dire ancora la dinamica, ma se vuoi un’impressione personale è questa: potrebbe anche essere stato accidentale, ma a naso direi di no. Comunque ne riparleremo dopo le analisi».
«Sono d’accordo. Ora come ora non saprei dirtelo con certezza, ma la mia impressione è che potrebbe esserci stata violenza. Comunque te lo saprò dire lunedì dopo l’autopsia».
Il Commissario li ringraziò e uscì dalla stanza insieme a Vargiu, in modo da lasciar Piras e i suoi uomini liberi di poter fare il loro lavoro in pace.

Fuori trovò il g.i.p., Marcello Grandi. Lo conosceva come un tremendo e insopportabile sputasentenze, con una strana e immotivatamente alta opinione di sé, per di più sempre disposto a lavorare il meno possibile. Non lo stupì, quindi, che Grandi, data una sommaria occhiata alla stanza, dicesse: «Va bene, Commissario, lascio tutto nelle sue mani. Proceda coi suoi accertamenti e ci risentiamo nei prossimi giorni».

 

 

18-04-2015 | 21:35