Cappuccetto Rosso deve morire /22

22.00

L’Ispettore tornò a casa e il Commissario si era fermato con Labile per fumare l’ultimo sigaro in riva al mare.

«Senta, che ne direbbe di aiutarmi».

«In che modo?».

«Mi sono reso conto che ha ragione: mi serve un consulente. Non sono molto esperto di manager d’azienda, tanto meno di manager di aziende farmaceutiche. Che ne direbbe di farmi da consulente? Potrebbe spiegarmi che tipo di rapporti intercorrono fra le persone coinvolte e, insomma, spiegarmi come funzionano certe dinamiche della vostra professione».

Labile, che per ragioni inspiegabili aveva provato per quel Commissario grasso dall’aria imperturbabile e sonnambula un’immediata empatia, accettò la richiesta.

«Allora, per prima cosa, mi dica come la pensa lei?».

«In che senso?».

«Come la pensa sul lavoro, sull’immagine, sull’ambizione... insomma, la sua visione d’insieme».

«Io credo che il lavoro e il contenuto siano importanti e che vengano prima di tutto. Ma ovviamente anche la forma ha la sua bella parte. Baltasar Graciàn diceva che la forma è quell’ornamento che ti può aiutare a indorare un no. Nella nostra professione è molto complicato dire di no. È sempre meglio la mediazione, lo s’insegna dalla notte dei tempi…».

«Sì, ma a quanto pare la gente è convinta di averla scoperta oggi e che si chiami marketing».

Un gatto passò piano tra i due uomini e al Commissario sembrò quasi lo fissasse negli occhi.

«L’arte di negoziare è antica, ma attualissima» disse Labile. «Purtroppo ci siamo riempiti tutti la bocca per troppo tempo con questa storia del marketing. In tutte le salse e per ogni stagione. Io stesso sono un gran Direttore Marketing. Ma che vuol dire? La verità è che se non vendo, se non faccio fatturato, io con l’azienda ho chiuso. Sono un commerciale. Siamo tutti commerciali. Che non è una brutta cosa, intendiamoci, ma per essere dei commerciali bisogna saper vendere, per vendere bisogna convincere e per convincere è necessario mediare e pazientare».

Il Commissario lo guardava perplesso: lui, malgrado le apparenze placide e irremissibili, era brusco e spesso impulsivo, e solo dopo una certa esperienza aveva imparato a esserlo meno.

«Quindi immagino che anche io dovrei vendere qualcosa…» aggiunse il Commissario un po’ in tono di sfida, con un sorriso sornione, pigro, attento.

«Immagino che anche per lei le cose non si mettano a posto da sole. È davvero convinto di non dover vendere proprio nulla per far sì che tutto funzioni o che almeno non le rompano un po’ troppo le scatole? Anche se mi rispondesse di sì non ci crederei. Lo so che anche lei ha collaboratori e superiori, che anche lei ha l’Ispettore e il magistrato, ed è proprio a loro che lei vende qualcosa».

«Lagri era il tipo perfetto per la mediazione».

«Certo, era la sua grande dote. Ma il contenuto... cioè gli studi fatti e l’esperienza... è il requisito minimo indispensabile per “giocare”, se capisce quel che voglio dire. Insomma, a lui mancavano quelli che molti nostri colleghi reputano requisiti minimi per essere nella professione».

«Come Seppi?».

«Posso confidarle un mio punto di vista personale?».

«Se crede».

«L’importante è che rimanga tra noi».

«Entro i limiti delle mie possibilità…».

«Seppi è un ottimo professionista. È sulla scena da anni, e non è facile nel nostro lavoro. Ha studiato moltissimo e la sua competenza non si discute, ma non si è mai…» si sospese, come se cercasse la parola in un dizionario personale che in anni e anni aveva procurato di arricchire a ogni secondo con post-it e scolii «affrancato dal proprio passato. È una persona che ha lavorato molto per ottenere ciò che ha ottenuto. Ha studiato e lavorato con dedizione, fatto la gavetta. Oggi è qualcuno. Ma ogni volta che parla non può non sottolineare chi è e cosa ha fatto. Non si è ancora asciugato il rivolo di bava di quando, da giovane, guardava quelli arrivati. Dovrebbe arrivare nella vita un momento in cui, quando inizi a vedere i risultati dei tuoi sacrifici, smetti di essere un ragazzo con la bava alla bocca e tiri fuori il fazzoletto per asciugarti».

«E secondo lei cosa manca a Seppi per arrivare a questa conclusione?».

«Io credo, mi pare di averglielo detto, che la vita sia una questione di ritmo. Si tratta di andare a tempo con le cose che ti succedono».

«La vita è mutamento», di nuovo non aveva resistito a dire una banalità.

«Per l’appunto. Se non si riesce a star dietro a questo mutamento, e qui entra in gioco il ritmo, si finisce inevitabilmente con l’essere fuori luogo. Credo che a Seppi manchi completamente il senso del ritmo. Secondo me è una cosa innata, ma si può anche imparare. È come parlare bene, perché il ritmo permette di dire meglio quelle cose che dette senza ritmo suonerebbero intollerabili: immagini cosa dev’essere parlare con qualcuno che risponde con venti minuti di ritardo. Il ritmo si può acquisire, ma richiede sforzo».

Il Commissario tirò fuori un fiammifero da cucina per dar fuoco al mozzicone di sigaro che si era nel frattempo spento.

«Se il mio capo mi fa ingiustamente una sfuriata come minimo vorrò fargli notare che non me lo meritavo, non farò altro che attendere la prima occasione per cantargliene quattro. Se, però, mi chiama per chiedermi un report urgente per il Presidente e io gli piazzo un pippone sul mio disappunto, lo faccio solo innervosire di più. Avere ritmo vuol dire in sostanza cercare di andare a tempo. Sempre. Non è facile come sembra, ma con un po’ di attenzione e di allenamento ci si può riuscire».

«Secondo lei cosa c’è di ritmico negli omicidi di Lagri e di Marinaro?».

«Uccidere, in molti casi, è terribilmente antieconomico. Prendiamo la definizione di Robbins: “L’economia è la scienza che studia il comportamento umano in quanto relazione tra fini e mezzi scarsi dagli usi alternativi”. Lei m’insegna che per identificare un assassino ci devono essere tre elementi classici: movente, mezzi e opportunità. In economia ci sono fini, mezzi con usi alternativi e comportamento umano. Quando si decide d’investire, di solito, si sceglie di seguire un buon progetto e lo scopo fondamentale è il guadagno. Quindi: lo scopo dell’investimento equivale ai fini dell’azione economica e al movente del delitto, il progetto derivante dallo scopo equivale alla scelta fra le combinazioni di usi alternativi dell’economia e alla coincidenza di mezzi e opportunità del delitto, e infine l’investimento prodotto dal progetto equivale al comportamento umano della formula di Robbins e all’omicidio in sé per sé. Teniamo anche conto di due elementi extra: il rischio e l’aumento della massimizzazione».

Il Commissario si mise a sedere su un pietra larga e piatta e fece cenno a Labile di continuare.

«Il rischio è la possibilità che l’investimento produca perdite e non guadagni. L’aumento della massimizzazione, invece, è l’aumento dell’efficienza con cui sono impiegati i mezzi scarsi: se un manager ha a disposizione molti soldi tenderà a sprecarli, se invece ne ha pochi li farà fruttare al massimo. In molte aziende, anche se il bilancio è in attivo, il budget a disposizione dei manager non aumenta per impedire che li spendano anche quando non serve».

«Beh, non mi dice nulla di nuovo: si rischia di più a uccidere o a tentare di uccidere il Presidente degli Stati Uniti che non un barbone in un vicolo buio: la pena sarà più severa e ostacoli e pericoli saranno molto maggiori».

«Precisamente: più rischi e più la tua prospettiva di guadagno dev’essere alta. Invece, la scarsità dei mezzi ha portato all’aumento della massimizzazione. Ecco perché il suicidio è stato inscenato così bene: i fattori a favore dell’assassino erano pochi (troppa gente, tutti si conoscono almeno di vista, non siamo in un vicolo buio, lo spazio è circoscritto, etc.), per cui il piano doveva essere assolutamente perfetto. Bisognava agire con sincronia e precisione, con ritmo, come la Guerra dei Sei Giorni o la Battaglia di Waterloo…».

«Mi tolga una curiosità: lei è stato militare, un ufficiale?».

«Sì, sono un tenente in congedo del corpo di amministrazione dell’Esercito Italiano».

«Le è stato utile?».

«Sì, credo che non ci sia un meccanismo più utile e una palestra più efficace per un manager di un periodo di leva nell’esercito. I primi dieci giorni sono infernali, alcuni sono stati sul punto d’impazzire. Però il risultato è eccezionale. Senza che a mio avviso sia preordinato, il risultato ultimo è che si impara alla perfezione la differenza tra autoritario e autorevole, tra un ordine da eseguire perché è da eseguire o perché va eseguito e basta».

«E in che consisterebbe la differenza?».

«L’autorità finisce in se stessa. L’autorevolezza comporta della considerazione da parte degli altri. Un ordine è da eseguire quando porta a un’azione necessaria. Va eseguito e basta, non è importante a cosa porta, è fondamentale che si crei un meccanismo che attribuisca fiducia alla catena di comando. Questo vale nelle truppe quanto nelle imprese. Non tutti sanno tutto e qualche volta – molto spesso, in realtà – chi deve fare qualcosa non ha tutte le informazioni necessarie o non deve averle. Ed è normale che non comprenda il collegamento tra ciò che gli viene ordinato di fare e ciò che lui farebbe. Ma questo non conta. Conta che chi sta sopra e vede più lontano sia in buona fede e lavori per l’obiettivo generale. Una volta che lo si impara sbattendoci il muso, diventa un pezzo importante del proprio comporto. L’autorevolezza si nutre proprio di questa fiducia».

Il Commissario annuì per dire che aveva capito.

«Scusi se mi dilungo ancora, ma credo che questo concetto sia molto importante. Naturalmente se non lo ritiene utile mi fermi».

«Non si preoccupi, vada avanti».

«Personalmente credo che guidare un plotone di professionisti – e non di ragazzotti di leva a cui non frega nulla – sia stata una delle esperienze più eccitanti della mia vita. Avere sotto di sé dei soldati che hanno qualcosa da perdere e che quindi faranno il proprio meglio per eseguire correttamente l’ordine, dare un comando convincente e benfatto… vede, dare l’ordine di mettersi sull’attenti a un plotone di leva per cui eseguire male il comando comporta, al massimo, il rischio di non uscire per due o tre sere, talvolta dava un esito anche “sonoro” di più suoni di piedi che battevano a terra. Darlo invece a un plotone schierato di allievi ufficiali aveva un solo esito:un boom secco e unico. Il rischio di non eseguire correttamente l’ordine per un allievo ufficiale è quello di essere punito e di non diventare ufficiale a fine corso. E questo fa una bella differenza. Non basta. Il comando può poi, in quel caso, essere autoritario o autorevole. O autoritario e autorevole insieme. In questo modo si crea il “sentimento”, quell’empatia di tutti per uno scopo comune. Allo stesso modo, se hai la responsabilità di una organizzazione, ci devi credere e devi metterci un po’ di cuore, cioè di sentimento».

Il Commissario sorrise per il coinvolgimento di Labile e quasi quasi gli dispiaceva dover stemperare il suo entusiasmo:

«Secondo lei la riuscita del comando porta alla riuscita del meccanismo?».

«Precisamente. Quando si comanda un plotone si tratta di ritmo e autorevolezza. E poi, ovviamente, c’è la soddisfazione del comando ben eseguito. Ovviamente, l’altra faccia della medaglia, è che molti ragazzi stavano letteralmente impazzendo. Io stesso c’ero vicino: sembrava di essere in un manicomio, con gli ufficiali di picchetto che per ogni inezia ti gridavano in testa. Erano fissati con la polvere: siamo stati mesi a lucidare mensole e ripiani su cui, immancabilmente, quando l’ufficiale veniva a controllare la camerata, passava il dito e lo alzava pieno di polvere. E non capivamo com’era possibile. Abbiamo dormito notti su notti inalando tutti i vapori di ogni antistatico e lucidante possibile. Inutile: a ogni ispezione il dito veniva rialzato sporco. Era incredibile. Alla fine, quando divenni ufficiale di picchetto io, scoprii che si sporcavano il dito sul bordo del battiscopa fuori dalla camerata: era tutta una scenetta per inquadrarti e metterti sottosopra. Per quanto mi riguarda, sono sopravvissuto solo perché ritenevo di avere certi obblighi... quindi ero gravato di mio, inoltre vivevo nel timore che mi facessero rapporto. Senza contare l’assurdità di certe cose, come appunto il caso della polvere... E quando diventai ufficiale di picchetto, senza voler sminuire quello che ho detto finora, le confesso che alla fine ne sono uscito recitando».

«In che senso?».

«La vita da ufficiale di picchetto era, con le dovute differenze, simile a quella da soldato. Era una continua vessazione. Un giorno mi guardai allo specchio e mi dissi “Giovanni, stai calmo, non vedi che è tutta una messinscena. Non volevi fare l’attore? Ora hai tutta una caserma per te”. Così diventai quello che gridava di più, e più mi gridavano in testa più gridavo io rispondendo, e sbattevo i tacchi come non mai: diventai il migliore del corso».

«Già. Una recita» sorrise il Commissario «giusto una recita».

«Ma non si tratta di fare il guitto: il punto è che, prima di arrivare a far tue certe cose, devi imparartele a memoria e ripeterle a pappagallo, e poi, dopo che le hai imparate per bene, ci puoi ragionare su».

«Il militare è quella cosa che rende il facile difficilissimo attraverso l’inutile, diceva mio padre».

«Esattissimo. Ma è solo l’apparenza, se si attribuisce un fine più ampio allora serve a formarti per la vita. Ma devi trovare un meccanismo, qualcosa che ti faccia decriptare le continue inutilità. Le cose che apparentemente sembrano inutili, anche se spesso lo sono, hanno la scopo di allenare la mente a non sottovalutare i più piccoli particolari in modo da aver chiaro l’insieme – virtù che un manager deve possedere».

Labile si schiarì la voce, visto che aveva parlato un bel po’, ma si vedeva che era soddisfatto di aver detto quelle cose, che probabilmente non aveva mai occasione di raccontare. Il Commissario si sentì di complimentarlo:

«Lei è molto narrativo quando parla».

«Ho fatto il professore universitario per dieci anni. Mi sono abituato ad “affabulare”: tenere l’attenzione di cinquanta studenti o più non è una cosa semplice. E, come se non bastasse, mi sono anche ritrovato a insegnare in un’università in cui la situazione era un po’ complicata perché la gerarchia non era quella classica, per cui dovevo anche essere gradevole con tutti».

«Perché? Com’era la gerarchia?».

«Di solito in un’università il presidente del c.d.a. è il rettore, e poi c’è un direttore amministrativo che si occupa della parte, diciamo così, tecnico-pratica. Nella mia università, invece, al vertice c’era una presidenza (perché era un’università privata con un proprietario) e sotto, come i vertici di base d’un triangolo, rettore e direttore generale. Quindi bisognava barcamenarsi fra questi due poteri omologhi. E la cosa non era facile».

«Posso immaginare: se il potere non è unico c’è sempre confusione».

«Anche se non ha responsabilità fa confusione. Si ricorda anni fa il problema delle esternazioni di Cossiga? Il problema era proprio questo: che succede al potere se non ha responsabilità di contro? Idem per la situazione dei magistrati».

«A proposito di potere e responsabilità, da quel che ho capito lei è molto ambizioso».

«Credo di avere un potenziale da esprimere».

«Che orari fa?».

«Mi sveglio alle cinque e mezza circa e vado a dormire verso l’una. Lavoro più di dodici ore al giorno, cinque giorni a settimana. Il weekend lo dedico alla mia famiglia, che purtroppo trascuro più di quanto sarebbe giusto. E per me ho solo tre o quattro giorni all’anno, quando la mia famiglia è dai parenti sabato e domenica».

C’è qualcosa che ha una statura quasi drammatica dietro questa ambizione” pensò il Commissario.

«E Marco Lagri?».

 

«Lagri aveva il suo stile. Diciamo che essere indulgente con se stessi era un modo di essere severo. Non è semplice vivere sempre senza essere troppo professionale. Questa era la sua tecnica ed essere sempre affabili e divertenti, professionalmente cazzoni e cazzari, è faticoso alla lunga. Immagini di dover continuamente intrattenere qualcuno, di dover essere sempre piacevole… dev’essere terribile».

11-09-2015 | 11:32