Uno schiaffo per Modigliani

Teppista e sfrontato. Così la testata Il Tevere definì il gallerista romano Dario Sabatello all’indomani di un’accesa diatriba con il critico fascista Giuseppe Pensabene. Era il 1936 e a Roma imperversava la campagna per la difesa della razza, dai cui strali non era immune nemmeno l’arte. Sotto accusa gli artisti ebrei, in prima battuta, ma non solo. Complici sono anche galleristi e letterati corrotti che danno loro spazio, al contrario di quanto accade invece in Germania, paese serio, dove si sta procedendo ad epurare dai musei l’arte degenerata. Su questi presupposti quando durante il discorso inaugurale della mostra Omaggio a sedici artisti italiani Sabatello venne interrotto da Pensabene che aveva da ridire su un grande nudo di Modigliani, esponente dell’arte “giudaicomassonica”, non ci vide più e gli rifilò uno schiaffo. Bilancio dell’episodio: un perfido articolo sul Tevere riguardo la “galleria ghetto di Roma” e una condanna per percosse a Sabatello che gli costò il posto di direttore della galleria. In più, una sfida a duello a Telesio Interlandi, direttore del giornale, che però non volle battersi contro un ebreo.

Era stato proprio Interlandi qualche tempo prima a scontrarsi con lo zoccolo duro dell’opposizione romana alle direttive ancora più o meno larvate del regime contro gli artisti. Opposizione che si concretizzò nella persona della contessa Anna Laetitia Pecci Blunt, detta Mimì, e nella sua galleria d’arte, La Cometa. Donna di antica nobiltà e discendente di papa Leone XIII (il cui emblema era per l’appunto una cometa), la Pecci Blunt aveva sposato un banchiere newyorkese ebreo assieme al quale si era stabilita nella Capitale, ospitando durante gli anni Trenta un salotto letterario nutrito e all’avanguardia, che prevedeva la partecipazione di intellettuali e musicisti da tutta Europa. Con una perenne sigaretta tra le labbra (Indro Montanelli le dedica un significativo epitaffio: “Qui i Pecci Blunt seppellirono Mimì / Fra la cenere visse / In cenere finì”), la contessa Pecci dimostrava di non essere di bocca buona di fronte alle prepotenze del Tevere, che accusava la sua attività di essere un ritrovo di ribelli, probabilmente non a torto. “Mi dispiace che certa gente così ignorante del modo di servire la Patria, non venga pregata di stare zitta” scriveva al Ministro della Cultura, dopo aver subito le accuse di Interlandi. Di fatto La Cometa proponeva programmi che sfidavano senza troppi sotterfugi il regime. La direzione era stata affidata a Libero De Libero, che dovette abbandonarne la guida tre anni dopo a causa delle leggi razziali, ma nel frattempo le mostre non lesinavano visibilità agli artisti più invisi alla dittatura. La linea controcorrente della galleria fu chiara sin dalla sua apertura, essendo tenuta a battesimo dall’ebreo Corrado Cagli, che la inaugurò con una mostra di cinquanta suoi disegni. Successivamente vennero ospitate altre opere di artisti considerati scomodi, come Mafai, che con la serie delle sue Demolizioni mostrava come Roma fosse stata deturpata dal fascismo, Roberto Melli e Adriana Pincherle, a loro volta ebrei, e Carlo Levi, che aveva appena finito di scontare il confino ad Aliano.

Ma l’autorità non rimase insensibile al fascino di queste provocazioni. E cominciò a ostacolarla con richieste vessatorie sempre più insostenibili, dapprima le generalità degli espositori e la loro tessera di partito, poi anche l’elenco dei frequentatori abituali. “Valeva la pena?” si interrogava anni dopo Libero De Libero “fui proprio io a sconsigliare un inutile eroismo. La Cometa chiuse la sua bella porta verde e chi ci perdette fu Roma, furono gli artisti italiani”.

Intanto, se nella Capitale la polizia aveva il suo bel da fare, a Milano era un’associazione clandestina interamente composta da artisti a dare del filo da torcere al regime. Del gruppo facevano parte Sassu, Birolli, Migneco, De Grada, Manzù, Guttuso, Franchina, solo per fare alcuni nomi. Molti di loro vennero scoperti, forse a causa di una soffiata, forse perché i loro discorsi erano stati intercettati nel luogo di ritrovo dove convergevano abitualmente, il caffè San Raffaele. Sta di fatto che la polizia piombò a casa di Sassu, lo costrinse ad aprire le porte dello studio e lì, oltre ad arrestare Nino Franchina che era suo ospite, nel sottotetto trovò anche il materiale per stampare un volantino inneggiante all’insurrezione. Per alcuni gli esiti di questo contrattempo furono lievi (Franchina rimase in carcere meno di una settimana, Birolli quindici giorni), ma Sassu rischiò di pagare un prezzo altissimo. Condannato a dieci anni di reclusione per attività antifasciste, in realtà rimase in carcere per poco più di un anno perché il re gli accordò la grazia. Sarebbe potuta andare molto peggio: Guttuso era da poco arrivato in città per il servizio militare e assieme a Sassu aveva provveduto a trafugare alcune cassette di munizioni dalla caserma, nel caso scoppiasse la rivoluzione. Il materiale era stato poi nascosto nello studio di Manzù, che alla notizia che molti del gruppo erano stati catturati si affrettò a liberarsene gettandolo nell’Olona.

Guttuso era riuscito a sfuggire all’arresto perché in quel momento si trovava a Roma, ma anche da lì riuscì in qualche modo a continuare l’azione di resistenza che era cominciata a Milano. Nel suo studio di via Pompeo Magno si concentrò l’attività di un nuovo gruppo, di cui facevano parte Mario Alicata e Trombadori, nonché Vittorini e Moravia. L’appartamento era dotato anche di un ciclostile, con il quale continuavano a fare informazione, per quanto possibile. Sono anni in cui possedere un oggetto simile costituisce di per sé un rischio. In tutta Italia chi vuole combattere il fascismo sa che un mezzo di stampa è più potente delle stesse armi. È il periodo in cui Paolo Alatri pubblica un foglio di informazione che passa voce del rischio di retate e delle spiate, utilizzando il ciclostile anche per stampare i dati su carte d’identità e carte del lavoro false che gli venivano procurate, per gli ebrei.

Trombadori e Alicata vengono individuati e imprigionati a Regina Coeli, da lì fanno sapere a Guttuso che un commissario fascista, Rotondano, è sulle sue tracce. Prima di fuggire a Grado, è necessario fare sparire le prove dell’organizzazione. Il macchinario di stampa viene gettato nel Tevere, mentre Guttuso si rifugia presso l’amico Alberto della Ragione.

Se anche molti degli artisti che presero posizione in antagonismo al regime furono incarcerati o costretti a nascondersi e quindi in qualche modo zittiti, un’opera doveva parlare per tutti loro alla Mostra di Bergamo del ’43. La scandalosa Crocifissione di Guttuso, con la Maddalena nuda, il Cristo con i pugni chiusi, i moderni strumenti di tortura in primo piano, è un grido laico di ribellione. Il sacrificio di un Cristo fatto simbolo del tormento di tutti gli uomini liberi. La necessità, disse Guttuso, “di opere che potessero parlarci, per analogia, di quello che noi stavamo vivendo”. 

 

 

04-07-2014 | 01:06