In un mare di m...

M come Merda.

Manzoni – Da quando, nell’agosto del 1961, Piero Manzoni espose alla Galleria Pescetto di Albisola novanta scatolette riempite con trenta grammi delle sue feci ciascuna, la merda, in senso stretto e non solo figurato, ha progressivamente invaso il campo delle arti plastiche.

Certo, il pubblico delle gallerie aveva già avuto a che fare con l’orinale di Duchamp e, grazie ai Surrealisti, si era forse abituato all’idea che residui organici potessero costituire i materiali di un’opera, ma quella era in assoluto la prima volta in cui veniva offerta la possibilità di ammirare degli escrementi non lavorati, ancorchè confezionati, e di acquistarli a peso d’oro. In effetti, Manzoni decise che il prezzo di ogni scatoletta corrispondesse al valore corrente di un’uguale quantità del metallo prezioso, stabilendo un’equazione del tutto nuova tra il valore dell’arte e quello della merda, purchè fossero entrambe iscritte nel contesto adeguato.

Quasi sessant’anni più tardi, gli spettatori si sono ormai assuefatti al fascino dell’ arte escrementizia e le sue icone sono diventate talmente numerose da sembrare ordinarie.

A titolo di esempio si possono citare gli spargimenti dei vari Azionisti viennesi, le tele ornate da Chris Ofili con sterco di elefante, le  fotografie che Andres Serrano ha scattato ai propri stronzi, la grande macchina produttrice di deiezioni progettata da Wim Delvoye e attualmente ospitata a Hobart, in Tasmania, dal Mona (che non è un simpatico epiteto veneziano, ma l’acronimo di  Museum of Old and New Art), le ottanta tonnellate di cacca evacuate dai cittadini di Zurigo per essere compattate in cubi da Mike Bouchet ed ammassate nella hall del museo Migros come opera chiave di Manifesta 11, e l’elenco potrebbe continuare.

A ciò si deve aggiungere che esistono anche riviste ispirate alla materia (fecale), come l’apprezzatissima Toilet Paper del genio italico Maurizio Cattelan, e che sono perfino nati diversi musei monotematici quali il National Poo Museum dell’Isola di Wight o il Museo della Merda di Castelbosco (PC), dove artisti illustri quanto Bernd e Hilla Becher o Anne e Patrick Poirier hanno concepito mostre ed istallazioni permanenti.

 

Moneta - Una tale proliferazione di stercofanie e stercoforie di riconosciuta valenza estetica non può non spingere a qualche considerazione di ordine critico.  

Innanzitutto va sottolineato che l’utilizzo degli escrementi nella loro concreta fisicità, senza ricorso a metafore ed altre mediazioni formali, implica il passaggio dell’ opera d’arte da una dimensione spirituale ad un‘ altra esclusivamente materiale.

Certo, l’uno rinchiude in una scatola la reliquia del corpo mistico dell’artista, ma prende cura di stampare ben visibile la dicitura “Merda “ sull’etichetta, l’altro fotografa gli stronzi come paesaggi di montagna, ma intitola le sue opere “Shit” e l’altro ancora costruisce un gran macchinario defecatorio dalle forme surreali, ma impedisce ogni possibile volo pindarico chiamandolo “Cloaca”. Tutti richiamano perentoriamente a non dimenticare che il nucleo significante dell’opera risiede unicamente nella materia prima. O meglio, nel fatto che proprio quella materia sia entrata a far parte del campo semantico dell’arte. Così, la semplice firma dello sterco da parte dell’artista riassume interamente il gesto creativo in un atto di assoluta autoreferenzialità.   

In secondo luogo, vale la pena notare che ognuna di queste opere è concepita in modo da obliterare accuratamente la parte immateriale delle feci, cioè il loro cattivo odore, in qualche modo il loro spirito o il loro demone. Forse perché, come suggerisce Guido Ceronetti nel “Silenzio del corpo”, “lo zolfo contenuto e soffiato via dagli intestini fa pensare allo zolfo quale emanazione del Diavolo e odore caratteristico dell’Inferno”. E questi lavori non hanno nulla di solforoso né tantomeno di diabolico, anzi riducono la cacca a un soggetto di rappresentazione finalmente abbastanza anodino da diventare accettabile come elemento decorativo. In buona sostanza ne conservano il nome e l’aspetto esteriore, ma le tolgono quella porzione di animalità che è espressione dell’anima, ossia dell’ oscura vitalità interiore di un corpo.

Da ultimo, sembra opportuno rimarcare che l’arte fatta con la merda, negando la propria natura metafisica ed anche quella che si sarebbe potuta eventualmente attribuire agli escrementi, si riduce a mera cosa e il solo valore che le si possa conferire è quello economico, cioè il prezzo. In questo modo il fare artistico, che da sempre si è caratterizzato come processo di trasformazione dei materiali in valori, viene azzerato. La cacca non è tramutata in terra e poi colore, forma e finalmente contenuto. Resta cacca, ma vale già oro, esprimendo solo se stessa ed il prezzo di mercato della firma che l’accompagna.

In questo senso l’arte stercoraria rappresenta uno dei prodotti più riusciti nel vasto campionario della società dei consumi. Defecare, confezionare, firmare e incassare. La favola dell’asino che cacava monete è finalmente diventata realtà.

 

N come No.

No – Filosofo razionalista, laico e liberale, Emile-Auguste Chartier, noto sotto lo pseudonimo di Alain, fu una figura di primaria importanza del pensiero francese a cavallo tra le due grandi guerre del secolo scorso. Principalmente interessato ai temi dell’etica, sviluppò in parallelo un corpus di opere di teoria dell’arte che costituì negli anni ‘20 la più strutturata alternativa all’estetica idealista di Benedetto Croce, da un lato, ed al materialismo di Lukàcs, dall’altro.

Lo si ricorda anche per essere stato il primo maestro di Jean-Paul Sartre e per le divergenze che lo opposero all’allievo negli anni in cui quest’ultimo diede alle stampe “L'imagination” (1936) . Nel 1926 Alain pubblicò “Le citoyen contre les pouvoirs” e in questo saggio apparve quella che rimane la sua asserzione più conosciuta e maggiormente degna di attenzione : “Penser c’est dire non” (Pensare è dire no).

L’esercizio del pensiero consiste, in fatti, in quella pratica che siamo soliti chiamare intelligenza, vale a dire l’effettiva capacità di capire, tra diverse ipotesi possibili, quale sia la più adeguata alla soluzione di un problema. Questo implica che capire significa scegliere, ovvero confutare tutte le alternative inefficaci o nocive. Quindi, l’atto di pensare coincide necessariamente con la pratica del rifiuto. Non a caso si è stabilita nel linguaggio corrente una sinonimia tra  giudizio e ragione e di una persona intelligente si dice che è una persona giudiziosa. Capace di dare giudizi, cioè capace di negare. Resta da decidere come chiamare tutti coloro che si fanno un vanto dell’ astenersi dal giudicare.  

La nostra epoca, irragionevole, pigra e ubriaca di sviluppo tecnologico, è incapace di dire no. Apparentemente non ama più pensare e si accontenta di ritenere accettabile tutto ciò che le è proposto come possibile. Così, storditi dalle certezze scientifiche, ci troviamo a brancolare nelle nebbie dell’incertezza etica. In questo contesto il possibile si rivela essere una merce incontenibile perché la sospensione del giudizio, che è già un assenso generico, dispensa dal pensare e la spensieratezza viene a coincidere con la spesa. La pratica dell’acquisto ha sostituito quella del pensiero, il verbo prendere è ormai considerato come un’evoluzione del verbo comprendere. E noi compriamo di tutto: bombe intelligenti, figli in provetta, sesso virtuale, viaggi su Marte, cure olistiche e perfino scatolette di merda firmata.

(continua)

 

 

 

 

   

18-04-2016 | 09:09