Tutto è cominciato con un pisciatoio

T come Tu

Tautologia -  Tutto è cominciato con un pisciatoio. Era il 1917. La vecchia Europa contava i milioni di morti di un’ennesima guerra e, mentre alcuni tra i suoi più grandi artisti, come Otto Dix, marcivano nelle trincee cercando di esorcizzare l’orrore con il disegno, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, Marcel Duchamp si interrogava su quale fosse la natura dell’opera d’arte. Un orinale rovesciato, firmato con lo pseudonimo R. Mutt, fu il risultato del suo divagare e la risposta alle sue domande. In un primo momento l’oggetto non venne nemmeno esposto perché i membri della Society of Indipendent Artists non lo reputarono degno di essere mostrato al pubblico, ma poi Alfred Steiglitz lo fotografò e ne pubblicò l’immagine - col titolo di “Fontana” - sulla rivista dadaista The Blind Man. Così quel modesto prodotto industriale si trasformò in icona e iniziò il cammino che lo avrebbe condotto fino ad essere considerato come l’opera di maggiore importanza del ventesimo secolo.

Ovviamente, la strada è stata lunga, tortuosa e lastricata da un numero incalcolabile di speculazioni teoriche, favorevoli o contrarie, ma è comunque innegabile che la creazione e la critica del ‘900 abbiano passato la maggior parte del loro tempo  all’ombra di quel pisciatoio. Ed è altrettanto indiscutibile che quell’ombra si sia stesa anche sui primi decenni del nuovo millennio. Il perché di una tale vicenda risiede in una rete di concause - storiche, estetiche ed economiche - senza dubbio troppo fitta per tentare di districarne le maglie e chiarire con certezza i ruoli degli attori, capire i loro moventi e i loro scopi, distinguere gli effetti del caso da quelli della necessità. D’altronde lo stesso Duchamp, probabilmente sorpreso dall’enorme risalto dato al lavoro, durante la sua vita dichiarò di tutto e l’inverso di tutto pur di confondere le carte con grande astuzia e intrattenere l’ambiguità con altrettanta, elegante, perfidia intellettuale.

Ciò nonostante, e a dispetto dell’accademismo duchampiano ormai egemone, forse oggi si dovrebbe constatare la realtà senza compiacenza e tentare di descriverla con lucida semplicità. E la realtà è che un re senza abiti è nudo anche quando la corte tutt’intera proclama il contrario e obbliga il popolo a fare altrettanto. Tradotto in parole umili, questo significa che un pisciatoio, per quanto magnificato dalla teca di un museo, resta pur sempre un pisciatoio. E questo malgrado il trucco di Duchamp, che consiste proprio nel tentativo di ribaltare una tale affermazione. Vale a dire che la Fontana, grazie alla piroetta tipicamente dadaista dell’autore, diventerebbe un’opera d’ingegno, perché firmata e quindi iscritta in quel campo semantico fatto di idee, gesti e cose che la società chiama Arte. (Il che non dovrebbe spingerci a celebrare il genio di Duchamp, ma piuttosto a mettere in discussione l’idea di progresso in virtù della quale il nostro mondo è passato dalla Cappella Sistina alla Fontana e a chiederci se una società che idolatra un orinale non abbia definitivamente perso il buon senso. Con ogni probabilità si scoprirebbe che il maggior significato dell’opera è proprio questo).

Ma, ciò che importa non è tanto la diatriba sulla qualità artistica del ready-made di Duchamp, quanto il fatto che si tratta di un lavoro il cui unico contenuto è se stesso, la definizione del proprio autore, del proprio statuto e del proprio contesto. In effetti, la Fontana altro non è se non una dichiarazione provocatoria (uno scherzo?) sulla natura dell’arte ed è considerata come un’opera solamente perché come tale si propone. In buona sostanza una tautologia, cioè un’affermazione che ripete nel predicato ciò che ha già detto nel soggetto. Una contorsione logica che ha aperto un baratro dove un gran numero di quasi artisti, tanto spiritosi quanto poveri di spirito, non vedeva l’ora di tuffarsi a capofitto. Arte autoproclamata che parla solo d’arte e quindi non può essere che arte, ormai totalmente indipendente da ogni legame con qualunque altro ambito. Politico, etico, esistenziale o religioso. Quindi, arte che affranca l’autore da ogni responsabilità verso chi o checchessia e gli permette di etichettare una qualsivoglia trovata come opera, consentendo a chiunque di dichiararsi artista al tempo stesso (si veda a questo proposito la teoria di Joseph Beuys).

Cent’anni dopo l’apparizione della Fontana il risultato di questo formidabile sforzo per rendere la creazione artistica autonoma ed autosufficiente è sotto gli occhi di tutti. I musei d’arte contemporanea sono stracolmi di barzellette d’artista, merde d’artista, copie d’artista e teorie d’artista, confuse in un misto parodistico che oscilla tra il trattato di estetica e la Settimana Enigmistica. Figli e nipoti di Duchamp, più o meno legittimi, hanno invaso lo spazio visivo per parlare a se stessi di sé e del proprio lavoro che parla solo di sé e del suo autore. Cent’anni di progresso ininterrotto per passare da un pisciatoio in ceramica a un cacatoio d’oro (Maurizio Cattelan al Guggenheim di New York). Un secolo eccezionale.

Tracotanza - Questo delirio solipsista di onnipotente indipendenza, sapientemente sostenuto da alchimisti estetici, politici e finanziari, si è tradotto in un atteggiamento di estrema tracotanza. Il mondo (tutto sommato piccolo) dell’arte si è ammalato di gigantismo e la sindrome ha prodotto come primo sintomo la nascita di musei immensi, destinati non agli amatori, ma a folle oceaniche di consumatori culturali. Si sono rase al suolo intere porzioni di città, riempiti spazi vuoti che ne permettevano il respiro, dislocati centri e baricentri che ne determinavano l’equilibrio, pur di costruire enormi torri di Babele dalle architetture sempre più arroganti. Cattedrali della cultura senza culto che rivaleggiano in dismisura e assorbono le energie come buchi neri nei quali tutti i contenuti si assommano, vengono assorbiti e si annullano. Milioni di tonnellate di vetro, ferro e cemento che spesso ricordano in modo sinistro gli inceneritori e, probabilmente, compiono le stesse funzioni, anche se su materiali diversi, distruggendo il senso e contaminando l’atmosfera (indispensabile a questo proposito la lettura de “L’effet Beaubourg” di Jean Baudrillard).

E poi, le opere. Installazioni grandi come piazze, statue (non sculture) alte come case, performances che occupano interi stadi. A titolo di esempio e per dare un contenuto concreto alle parole, il “Terzo Paradiso” di Michelangelo Pistoletto, che ha coperto di spazzatura Piazzale della Pace a Parma in nome della riqualificazione di un luogo degradato, “Puppy” di Jeff Koons che, davanti al Guggenheim di Bilbao, si propone come parodia del kitsch mentre ne è la massima espressione, lo show di Vanessa Beecroft al Madison Square Garden di New York, che ha messo in scena il dramma dei profughi africani, ma solo per vendere ad un pubblico benestante le tenute sportive Adidas disegnate da Kanye West. Tanto esagerati nelle dimensioni quanto sprezzanti e furbescamente beffardi nella sostanza, questi sono giusto alcuni recenti campioni dello sterminato catalogo di gesti tracotanti che l’industria planetaria dell’arte propone con frequenza quasi quotidiana.

Infine, il mercato. Un susseguirsi ininterrotto di aste e fiere nelle quali l’unica cosa che vale è la lunghezza delle cifre. A New York, in una settimana di tornate d’asta si sono venduti lotti per una somma pari a quella necessaria per costruire circa trecento scuole. All’ultima fiera di Basilea, il valore assicurato dalle gallerie era il triplo di quello che il nostro paese spende in dodici mesi per la conservazione del patrimonio artistico. Nel mondo, il volume globale delle vendite di opere d’arte durante l’ultimo anno ammonta a una cifra con la quale si potrebbero finanziare venti università per il prossimo ventennio. Una corsa all’eccesso in cui ciò che si vende non ha più nessuna importanza in sé (e spesso proprio non ne ha) nella misura in cui il suo valore è determinato solo dal suo prezzo, una corsa al rialzo nella quale solo conta la quantità.

E forse quello della sostituzione della qualità con la quantità è veramente l’unico destino possibile per un’arte che ha perso il senso del proprio limite.

Tu – La relazione tra l’identità del creatore e l’alterità dello spettatore è senza l’ombra di un dubbio la pietra sulla quale si è fondato tutto quell’edificio di segni e significati che per millenni abbiamo chiamato arte. Una relazione dialettica nella quale l’io che fa trova nel tu che osserva la propria ragione e, al tempo stesso, la propria definizione, cioè il  proprio limite. Ma cosa resta di tutto ciò se l’opera che funge da tramite non si rivolge più all’altro e non è più l’espressione di un linguaggio comune? Che resta dell’arte quando scompare l’empatia?

Indifferenza. In tutti i sensi del termine, vale a dire disinteresse per i contenuti e impossibilità di distinguere i valori. E questo è esattamente ciò che si è prodotto nel  corso degli ultimi cento anni. Nell’arte autoreferenziale la forma può rimpiazzare la vita, la modernità essere sostituita dalla moda come l’enigma dall’enigmistica, il prezzo prendere il posto del valore e l’umorismo quello dell’umore. E così si può indifferentemente denunciare la miseria vendendo il lusso che ha creato quella stessa miseria e la rende insopportabile, rimediare al degrado con la spazzatura o ammirare un pisciatoio in mezzo ai dipinti e alle sculture. Sembra assurdo e lo è. Ma che altro può essere un dialogo tra due soggetti che parlano a se stessi in due lingue diverse, senza un interlocutore, senza un tu?  

 

U come Umanità 

Bellissima parola dai significati diversi. Nell’accezione più concreta del termine indica il complesso degli esseri umani viventi sulla terra, il genere umano. La specie umana, come la chiama nel titolo del suo indimenticabile libro Robert Antelme, sottolineando quanto l’appartenenza alla comunità degli uomini non possa essere sminuita ed intaccata dal concetto di razza che si applica solo al mondo animale. Perché gli umani sono animali, certo, ma hanno un’anima, uno spirito. Quel “qualcosa” di immateriale che è comune ad ognuno e che consiste nell’idea della propria condizione. Fatta di volontà, di pensiero, di desiderio e di immaginazione. Che non si può ridurre all’automatismo dell’istinto o al meccanismo delle cose e che implica di fatto la coscienza di appartenere ad una società di simili, il sentimento dell’altro. Proprio quel sentimento che siamo soliti definire con la parola “umanità”.

E qui appare il secondo significato. Quello che identifica la capacità di sentire e, nel migliore dei casi, di capire che “io è un altro”. Cioè la consapevolezza che l’identità umana nasce e prende forma nella relazione e, quindi, che l’empatia ne costituisce la struttura portante. O, come si può leggere nell’opera di Martin Buber, che “Nessun uomo è pura persona, nessuno è pura individualità. Ognuno vive nell’Io dal duplice volto”. In effetti, cosa resta della vita di un uomo se gli si toglie la possibilità di pensare e agire in funzione di altri? Un “egoismo senza ego”, come scrive Maurice Blanchot a proposito dei deportati che tentano di sopravvivere alla condizione animale cui sono ridotti nei campi, vale a dire la sola sensazione istantanea del proprio sforzo per non morire. Ma la vita è molto altro e molto di più. È proiezione di sé nel mondo degli altri, nello spazio e nel tempo comuni. Creazione dei luoghi e delle cose, invenzione del futuro e memoria del passato.

Non a caso per “umanità” si intende anche l’insieme degli studi letterari che hanno per oggetto l’uomo e la sua produzione intellettuale, con un riferimento particolare all’antichità.  Certo, perché solo l’uomo ha una dimensione storica, riflessiva e poetica e, soprattutto, solo l’uomo è stato in grado di sviluppare una coscienza critica del proprio passato.  Ed è triste constatare come l’imperante positivismo scientifico ed il suo braccio armato di tecnologia tendano a ridurre la memoria ad un ingombrante fardello che appesantisce il cammino diretto verso “le magnifiche sorti e progressive”. Un peso da immagazzinare al meglio nel cervello artificiale di un computer o da confinare con discrezione nelle sale di musei poco frequentati e nelle aule di facoltà disertate, in modo che il tracotante incedere dello sviluppo (senza progresso) non incontri ostacoli sul suo passo.

Ed infine, ma non certo per ultima in ordine di importanza, l’accezione con la quale si indica la condizione umana, la particolarità dell’essere uomo. Quel trovarsi a metà strada tra l’animale e la divinità, tra il desiderio di vivere e la paura di morire, tra la capacità di creare e l’impulso di distruggere, perennemente confrontato alla scelta tra bene e male, immaginazione e realtà, libertà e alienazione. Un significato che ogni grande opera d’arte ha tentato di esplorare e ogni sistema filosofico ha cercato di definire. Perché, in fin dei conti e malgrado ogni divagazione o certezza scientifica, ci resta ancora da capire chi siamo.

 

 

 

 

 

                                                 

21-08-2016 | 23:33