Si può cancellare Twitter?

Venerdì mattina, la Turchia si è svegliata senza Twitter. E al trauma è seguita un'ondata di sdegno: trauma perché la popolazione è giovane e ultra-connessa (si stimano 10 milioni di utenti), sdegno perché non si è trattato di un guasto tecnico ma di un provvedimento amministrativo. In Turchia si vota infatti il 30 marzo, il partito al potere – il Partito della giustizia e dello sviluppo d'ispirazione islamica (Akp), fondato e guidato dal primo ministro Recep Tayyip Erdoğan – rischia di pagare pesantemente nelle urne il prezzo di uno scandalo di proporzioni epocali: una Tangentopoli in piena regola, che coinvolge il premier, la sua famiglia, il suo cerchio magico. Dalle procure – osteggiate perché accusate di essere politicizzate, legate all'ex alleato e ora nemico giurato Fethullah Gülen (l'imam che vive in esilio negli Usa) – la lotta senza quartiere contro Erdoğan si è trasferita su Twitter e Youtube: attraverso i quali, con la palese intenzione di influenzare il responso elettorale, vengono distribuiti quotidianamente registrazioni e documenti apparentemente incriminanti.

Il blocco di Twitter e minacce esplicite di analoga sorte per Youtube e Facebook sono una disperata mossa per la sopravvivenza (politica): il tentativo di fare pressione per ottenere dalle aziende in questione la disattivazione degli account ostili e l'identità dei responsabili; una mossa che qualche risultato forse l'ha dato, visto che il sito di microblogging da 140 caratteri ha immediatamente nominato un legale per trattare con le autorità di Ankara. Ma il fallimento è stato per il resto totale: con piccoli accorgimenti chiamati Vpn e Dns – vi risparmio i dettagli tecnici – il blocco è facilmente aggirabile, i cinguettii sono continuati imperterriti e impertinenti. E' il bello di Internet: la tecnologia è sempre un passo avanti rispetto a chi pone limiti e restrizioni; ma anche la creatività: come quella di chi ha pensato di distribuire i codici di accesso scrivendoli sui manifesti elettorali dell'Akp. La Nemesi del passero: la stessa che ai tempi di Gezi aveva già sbeffeggiato Erdoğan, infuriato per come Twitter era stato utilizzato per organizzare le rivolte di piazza Taksim.

Per affinità geografica, Gianni Riotta – proprio su Twitter – ha invece scomodato la flagellazione che il re persiano Serse inflisse all'Ellesponto: lo stretto dei Dardanelli, il braccio di mare che mette in comunicazione il mar Mediterraneo al mare di Marmara; ma fu un gesto rituale, una punizione per la distruzione di un ponte di barche travolto dalla corrente: l'esempio è tutto fuorché calzante, l'inutilità non c'entra. E attenzione: se da una parte i giovani turchi allergici a ogni forma di restrizione e repressione si sono come previsto scatenati, non pensiate che i giovani sostenitori dell'Akp siano avversi al web! Anzi, è stato proprio il partito di Erdoğan – che col programma Fatih vuole connettere alla Rete tutte le scuole del paese e dotare di un tablet tutti gli studenti – a fare il miglior uso dei social network durante la campagna elettorale: video-animazioni per presentare i progetti degli 81 candidati a sindaco, foto e video di qualsiasi manifestazione organizzata, i discorsi del premier riassunti in tempo reale su Twitter, orde di militanti pronti a diffondere e commentare. Sempre con l'#hastag bene in vista: almeno fino a venerdì.

Da ieri invece – nel mondo reale, nel mondo virtuale – impazzano fotomontaggi, caricature, slogan: la mezzaluna della bandiera nazionale che si trasforma in pac-man e divora l'uccellino, stormi che sfogano sulla testa di Erdoğan la propria maleodorante incontinenza, il ritratto in stile obamaniano del premier che pronuncia il fatidico “Yes We Ban!”; anche rabbia, a dire il vero: che percepisce come “censura”, “dittatura” e “fascismo” tutto ciò che non corrisponde al proprio modello di società. 

23-03-2014 | 10:37