Rivoluzione e conformismo

R come Rivoluzione

Ri - Minuscolo prefisso dagli enormi poteri. Si pensi solo a quante energie, quanti sforzi e, in una parola, quanta vita passi tra il momento in cui si comincia un lavoro pieni di entusiasmo e quello in cui si è costretti a ricominciarlo da capo, dubbiosi e annoiati, e si capirà l’importanza di queste due lettere in apparenza anodine. Hanno valore iterativo, intensivo, enfatico e possono perfino stravolgere il senso di una parola. Ad esempio, se una forma è una cosa ed una riforma è il suo contrario, lo si deve proprio a quella particella così significativa.

Per il gusto dell’aneddoto, si racconta che, quando una signora, scandalizzata dalla semplicità infantile dei suoi Ominidi, disse a Piero Manzoni: “Ma questi li sa fare anche mio figlio che ha sei anni!”, l’artista le rispose: “Cara signora, bene che vada, suo figlio questi li saprà solo rifare”. E quel ri conteneva tutta la differenza che separa l’originale dalla copia e la trivialità dall’arguzia.

Così, se rivedere implica una sfumatura cattedratica che vedere non ha e  rivisitare vuol dire in pratica l’opposto di visitare, “eccolo!” è spesso un’ esclamazione gioiosa, mentre “rieccolo!” manifesta il più delle volte un fastidio o un disappunto. Nello spazio angusto di quelle due lettere ci stanno veramente tante cose e, per un occhio attento, oggi ci sta anche la quasi totalità dell’arte contemporanea. Riferimenti, rifacimenti, rivisitazioni, riproduzioni, l’arte dei giorni nostri è per lo più un’arte del ri. Tutta presa, spesso inconsapevolmente, dalla ripetizione, la glossa, la modulazione seriale e la citazione di un passato, anche recente o recentissimo, oltre il quale vorrebbe spingersi nel sacro nome della novità. Ma di nuovo essa esprime veramente poco, proprio perché ri è iterativo, intensivo e enfatico. Cioè pedante, autoreferenziale, insistente e pletorico. Tutt’altra cosa rispetto al prefisso in, che può essere intuitivo, inventivo e quindi, nel migliore dei casi, innovativo.

Rivoluzionari -  Eppure, malgrado i prefissi e oltre le abitudini linguistiche, c’è un’insospettabile coincidenza tra involuzione e rivoluzione. Un’involuzione altro non è se non una regressione ad uno stadio di sviluppo precedente e una rivoluzione è letteralmente un ritorno al punto di partenza dopo un’orbita completa.

“Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi" dice Tancredi, nipote del Principe di Salina, nel Gattopardo. E ai giorni nostri è possibile verificare quanta verità ci fosse in quella frase ormai famosa. Dopo un secolo – il ‘900 – nel corso del quale le rivoluzioni estetiche si sono susseguite come i grani di un rosario, dal cubismo all’astrattismo e dall’informale al minimale, fino a trasformare l’arte in uno sterile discorso sulla propria forma ed il proprio statuto, ci ritroviamo oggi nel mezzo di un panorama dominato da un nuovo, vuotissimo accademismo. Sembra di essere tornati all’epoca in cui Anton Mengs dettava alla corte di Carlo III le regole del bello e del giusto ispirandosi all’opera di Raffaello, di cui riproduceva gli stilemi senza possederne la sostanza.

Artisti rivoluzionari che rispettano con grande zelo il codice di gusto stabilito dalla ghenga internazionale dei trendmakers e degli operatori finanziari più potenti. Opere fatte in serie utilizzando un corredo preconfezionato di elementi sociologici, estetici, politici ed economici, ovviamente abbastanza vaghi da non diventare mai urticanti e sempre presentati in modo sufficientemente decorativo da rasentare il mobilio di lusso. Mostre  concepite a ripetizione, come cataloghi d’asta, per snocciolare nella maniera più efficace il campionario globale del mercato. Un po’ di terzomondismo, qualche tocco di pittura, molta critica sociale condita con un’ abbondante spruzzata di teoria estetica, goliardia ridanciana quanto basta e giovanilismo a iosa. Questa è l’accademia del nostro tempo.

Parafrasando Tancredi, verrebbe da dire che “Se vogliamo che qualcosa cambi, bisogna che nulla rimanga com’è”. Ma, in virtù di quale miracolo potremmo sperare nella nascita di un nuovo Goya, capace di mandare in pensione i Mengs del pianeta e  mettere per davvero a soqquadro il piccolo mondo antico dell’arte contemporanea? Forse, un miracolo che facesse finalmente coincidere rivoluzione con evoluzione.

 

S come Sostanza

Soqquadro - Parola indimenticabile perché ad ognuno di noi è stato insegnato che è la sola della lingua italiana ad avere una doppia q. Il che le conferisce un carattere eccezionale. Bellissima, perché porta con sé l’energia del caos e suggerisce la sorpresa  di una trasgressione alle regole millennarie dell’architettura, che da sempre vogliono ogni angolo in squadro. E con ciò evoca un’arte che, come la natura, sia capace di produrre linee sinusoidali, spirali, vortici e volute (si legga a questo proposito L’Analisi della  Bellezza di William Hogarth). Immaginifica, perché fa balenare lo scompiglio di una raffica di vento, tanto impetuosa da disallineare tutti i quadri che ristagnano nelle polverose gallerie delle accademie. Un vento fresco di disordine, leggero come l’aria e potente come il turbine.

E, siccome ogni disordine – tutti lo sanno – altro non è se non un ordine ignoto, l’idea di soqquadro è il terreno più fertile per l’invenzione. Molto più di ogni rivolta, rivolgimento o rivoluzione. Molto meglio di ogni sovversione, sommossa o sovvertimento, che contengono solo l’ipotesi di un ritorno dell’ordine passato a termini rovesciati. Soqquadro è foriero di mondi diversi e nuovi. Della differenza e non del contrario. Si pensi al modo in cui Lewis Carroll mise a soqquadro la logica dell’austero matematico Charles Lutwidge Dogdson e si capirà che il Paese delle Meraviglie di Alice non è solamente l’opposto dell’universo descritto in un trattato di analisi algebrica. È l’immaginazione di tutt’altra cosa.

Purtroppo, la nostra epoca è figlia dell’algebra, non della poesia. Delle cifre, che sanno dire solo la quantità, e non delle parole, che racchiudono la qualità.Perché  nasce appunto dalle rivoluzioni, che hanno immancabilmente rovesciato la sostanza generativa e salvifica del disordine nell’esangue rigidità delle forme. E, ciò facendo hanno decretato il fallimento dei propri intenti, soffocando la libertà dell’ individuo con il conformismo delle masse, rimpiazzando il come con il quanto, la meraviglia della sorpresa con la noia della ripetizione.

Sostanza – Per qualità di una cosa o di una persona si intende il suo essere “quale”, vale a dire quella proprietà che la distingue e la specifica, rendendola appunto speciale o inconfondibile, unica. È, come scriveva Vladimir Jankélévitch, il je-ne-sais-quoi et presque-rien (non so che e quasi nulla) che dà ad un’esistenza il suo carattere di irripetibilità. Cioè la sua sostanza. La sua sub stantia, ciò che permane sotto la mutevolezza materiale delle apparenze.

Ciò che è successo nel nostro mondo, dalla Rivoluzione Francese in poi, è stata una progressiva ed esclusiva affermazione del razionalismo in ognuna delle sue diramazioni, dal positivismo scientifico all’utilitarismo economico e dal meccanicismo sociologico al materialismo estetico. Tutte modalità di analisi del reale che hanno sgomberato il pensiero da ogni preoccupazione metafisica o “sub-stanziale” e ridotto il tutto alla sinonimia tra essere ed apparire, tra pensare e contare, quindi tra qualità e quantità.

La sostanza ha ceduto il posto alla forma, la parola al numero, l’essere all’avere ed il progresso allo sviluppo. Cosa può restare dell’arte in un contesto come questo?

L’originalità è scomparsa, l’invenzione anche, sola si perpetua un’arida litania di cose, ripetute senza senso perché senza qualità. Uniche sostanze di cui sia lecito parlare sono quelle degli speculatori.

 

- continua -

 

 

 

                                                                                                        

27-06-2016 | 00:31