Quell'eroe che era Bowie

I fans di David Bowie avranno di recente ricordato i quarant’anni dall’uscita di Heroes, il disco centrale e più rappresentativo della “trilogia berlinese”, che compone assieme a Low e Lodger e il solo dei tre che venne interamente pensato, scritto e inciso a Berlino, città in cui il musicista inglese si era rifugiato all’apice del successo e a un passo dal tracollo psicofisico ed economico. La missione era rigenerarsi, smettere con la cocaina e fare qualcosa di nuovo. Addio lusso, addio sole perenne e ville a Beverly Hills, David Bowie viveva ora nel tranquillo quartiere di Schöneberg, in un appartamento al primo piano di uno stabile in stile Art Nouveau di Hauptstraße 155, discreto e anonimo, tendente al grigio come solo in Germania lo si trova. Nessuno lo riconosceva per strada, usciva a fare la spesa, trascorreva le serate in locali nei dintorni di casa e le persone che vedeva di più erano Brian Eno e Iggy Pop (che fu suo compagno d’appartamento per un periodo). Accantonati travestimenti e alter ego, ora era solamente David Bowie. Berlino Ovest era un’isola di Germania Federale all’interno della Repubblica Democratica Tedesca (la Germania comunista), la città più frastornata, divisa, piena di contraddizioni che si potesse trovare in Europa. La copertina in bianco e nero (fotografia di Masayoshi Sukita ispirata al dipinto Roquairol di Erich Heckel) ritrae Bowie in giubbotto di pelle, lo sguardo con le pupille di dimensioni diverse fisso nel vuoto e le braccia ad angolo retto come un automa da cinema espressionista: perfetta corrispondenza visiva delle sonorità e degli stati d’animo del disco, dei suoi chiaroscuri, delle sue atmosfere lunari e ipnotiche. Berlino stessa è stata a lungo una città immaginata (anche dal cinema) in bianco e nero, una città ferita, infestata dai fantasmi della storia recente.

Se Heroes ha ancora oggi un così forte fascino e un notevole numero di persone lo associa a Berlino, il motivo sta nella puntuale combinazione di più fattori. Certamente lo stile musicale, che guardava al panorama tedesco, ma soprattutto la forte suggestione esercitata dalla città di cui tratta, capitale spodestata della Germania sconfitta, spartita tra Paesi stranieri, luogo in cui le due ideologie del mondo in piena Guerra Fredda vivevano gomito a gomito e si guardavano negli occhi, divise da un muro alto appena tre metri; poi vi si trovano il riecheggiare di riferimenti alle avanguardie artistiche degli anni Venti, alla pittura e al cinema espressionisti. Elementi fortemente connotati che formano il teatro immaginario in cui, sentendo i testi delle canzoni, si ritrovavano gli antieroi, le solitudini urbane, le euforie sinistre, i riferimenti letterari che dalla Berlino di allora arrivavano al resto del mondo attraverso i media e le arti e ne facevano una città piena di segnali decadenti, con tutto il fascino che ne conseguiva. Ascoltando i brani strumentali (Neukölln, Moss Garden) si ha la sensazione di sorvolare sul suo paesaggio urbano fatto di chilometri di filo spinato, palazzi anneriti dalle bombe, il Muro, isolamento geografico e tanto cielo plumbeo che avevano assunto un valore estetico nuovo nella cultura rock e nelle arti figurative. Il testo della canzone Heroes, ad esempio, è un condensato di questi riferimenti: racconta di due amanti che possono essere eroi solo per un giorno, che ricordano gli spari sopra le proprie teste, vicino al Muro, e si conclude con tre versi (giusto alla fine del climax emotivo) che non possono non funzionare (cioè commuovere chi l’ascolta): “We’re nothing, and nothing will help us/Maybe we’re lying, and you better not stay/But we can be safer, just for one day”. Tutto il disco è una concentrazione di fattori che hanno individuato talmente bene l’immaginario simbolico di quella città che ne fanno un capolavoro. Le registrazioni cominciarono in estate, agli Hansa Studios, situati a poche centinaia di metri dal Muro. Le sessioni avevano durate interminabili, spesso andavano avanti  fino all’alba, quando Bowie ed Eno rincasavano per dormire qualche ora. La sala d’incisione lunga quindici metri suggerì quell’alone di eco che percorre le sonorità dell’album; lo si sente bene nella canzone Heroes, dove i tecnici piazzarono tre microfoni a intervalli di spazio diversi in modo che in determinati momenti Bowie dovesse cambiare posizione e urlare per compensarne la distanza. Il risultato estetico fu notevole. Alla chitarra c’era Robert Fripp (richiamato da Brian Eno dopo qualche anno di ritiro), che registrò tutta la propria parte in un solo giorno. Creò un suono metallico, lirico e dolente che è il centro di questa fusione perfetta – che Brian Eno contribuì a creare – tra il rock britannico e lo sperimentalismo elettronico del Krautrock (il rock tedesco anni’70), quello dei Neu!, ma soprattutto dei Kraftwerk. E mentre quest’ultimi erano idiomaticamente tedeschi e rincorrevano l’estetica dell’impersonalità atteggiandosi a robot con la totale apatia della voce, Bowie, da rocker inglese espatriato, ne riformulò gli stimoli e il suono secondo il proprio retroterra musicale, melodico e decadente. Una sintesi che forse nessun tedesco troppo tedesco avrebbe saputo fare.

Rimangono nelle orecchie tante frasi di quei bellissimi testi fatti di istantanee accostate in modo sconnesso, in cui si parla di freddo, di baci sotto la pioggia, di aerei da prendere, di addii, di promesse, di cinema muto, di sogni, di re e regine immaginari, di eroi per un giorno soltanto.

L’influenza sulla musica rock futura fu enorme, e ascoltato oggi riaccende un’allucinazione piena di nostalgia che rievoca quell’isola circondata di terra in cu si viveva ristretti dal perimetro di un muro e dove, nonostante i dispetti fatti dalla Storia, c’era tanto spazio per immaginare, per vedere e pensare le cose da vicino. E che oggi non esiste più.

 

 

16-10-2017 | 14:06