Quando Chatwin divenne Chatwin

La carriera di Bruce Chatwin ha impressionato, entusiasmato e qualche volta allarmato i lettori di mezzo mondo. Come brillante e sensibile esperto d’arte per la prestigiosa casa d’aste londinese Sotheby’s, acuto osservatore per il Sunday Times Magazine, romanziere e saggista, instancabile viaggiatore e conversatore, è una delle personalità di prim’ordine della letteratura mondiale della seconda metà del Novecento.

Il suo nome ha la risonanza dei più grandi e per gli storici della letteratura è all’unisono un «Maestro». Bisessuale, anche se sposato per quasi quindici anni, è stato uno dei primi uomini di spicco dell’alta società britannica a contrarre l’HIV. Non fu mai tenero verso gli ambienti che frequentava, anche se amava tenere rapporti con essa e circondarsi di amici influenti. A venticinque anni dalla sua morte, i suoi libri continuano a essere ristampati in decine di lingue.

Il timbro, l’asciuttezza, l’icasticità della sua prosa sono state le lame taglienti con cui ha sezionato e analizzato a fondo il mondo tramite lo sguardo penetrante di chi, a partire da qualsiasi cosa, vuole andare il più lontano possibile. Attualmente, poi, il suo stile lapidario ed essenziale sembra fatto su misura per essere racchiuso nella compressione comunicativa propria dei social network. Per di più, Chatwin, ha avuto il tempismo di razza dei grandi narratori e ha capito che non era più tempo di raccontare i grandi eventi della storia moderna direttamente dal campo - come fecero Malraux, Hemingway e Herr - ma di vivere la vita come un «viaggio da fare a piedi», per poi fermarsi e ricordare ciò che si è visto.

Come specificato da egli stesso, la parola «racconto» serve ad avvertire il lettore che, per quanto la narrazione possa avvicinarsi ai fatti, c’è stato un intervento della fantasia. Per questo, è stato spesso criticato per gli aneddoti che attribuiva a persone, posti e fatti reali. Spesse volte, infatti, le persone di cui scriveva si riconoscevano nelle sue storie e non sempre apprezzavano le distorsioni da lui effettuate nei confronti della loro cultura e delle loro abitudini. L’autore della sua biografia, Nicholas Shakespeare, scrisse che quella di Chatwin «non era un mezza verità, ma una verità e mezzo».

La sua storia, ridotta all’osso, è quella di un talento precoce che ha saputo trasformarsi in un grande uomo. A diciotto anni, quando già sognava di studiare i classici al Merton College di Oxford, si trasferì a Londra, dove in breve tempo affinò la sua sensibilità in materia di percezione visiva, diventando un raffinato esperto di arte antica e impressionista. A ventisei anni iniziò a soffrire di una strana forma di problemi alla vista. La leggenda vuole che la colpa fosse da attribuire alla troppo ravvicinata e costante analisi di quadri e oggetti d’arte.

Su consiglio di Patrick Trevor-Roper, il suo oculista di fiducia, Chatwin partì per il Sudan nel febbraio del 1965. La permanenza gli aprì gli occhi sulla puerilità del mercato dell’arte occidentale, accelerando in lui un processo un processo di disincanto già in atto da qualche tempo. Al suo ritorno, si iscrisse all’Università di Edimburgo e focalizzò i suoi interessi verso l’archeologia.

Il Chatwin di quegli anni era però particolarmente allergico al rigore accademico e abbandonò gli studi dopo due anni senza aver conseguito alcun titolo. Nella sua incarnazione successiva, mantenendosi con la compravendita di dipinti, visitò parte dell’Afghanistan e alcuni paesi del continente africano. Durante i suoi soggiorni e le sue traversate a piedi, sviluppò un forte interesse per i nomadi e il loro distacco dalle proprietà personali.

Di nuovo in Inghilterra, infatti, decise di mettere il tutto nero su bianco: «Perché gli uomini invece di stare fermi se ne vanno da un posto all'altro?». Questa era la domanda di fondo per quello che passerà alla storia come L’alternativa nomade, volume che Chatwin non terminò mai e che venne pubblicato postumo. Nel 1973 fu assunto dal Sunday Times Magazine come consulente di arte e architettura, incarico che gli permise di girare il mondo e di mettere a punto la sua abilità narrativa, e di conoscere e intervistare i personaggi più disparati come André Malraux, Nadežda Mandel'štam e Ersnt Jünger.

Uno di questi incontri fu decisivo: Chatwin intervistò anche l'architetto novantatreenne Eileen Gray nel suo studio di Parigi. Appesa a una parete vi era una mappa della Patagonia che lei aveva dipinto. "Ho sempre desiderato andarci" le disse Bruce. "Anche io" replicò lei, "ci vada, al posto mio". Due anni dopo partì alla volta di Lima, dove una volta atterrato ne diede l'annuncio, insieme alle proprie dimissioni, al giornale, con un telegramma: "Sono andato in Patagonia". In quel preciso istante, Chatwin divenne Chatwin.

La prima volta che lessi il suo nome fu una decina di anni fa, una mattina, mentre lasciavo che il mio pensiero vagasse liberamente tra i meandri di una piccola e polverosa libreria. Ero solito passare in rassegna pressoché tutti i volumi sopra cui campeggiava l’etichetta «Narrativa», lasciandomi guidare dall’istinto. Puntai il dito sulla scansia più in alto e, muovendolo da sinistra verso destra, mi fermai poco dopo il punto di partenza, in corrispondenza di un corposo volume bluastro. Lo tirai fuori.

Sulla copertina era raffigurata la foto di un giovane uomo bianco dalle sembianze tedesco-sassoni, dallo sguardo profondo, con gli occhi scavati, uno zaino in spalla e un paio di scarponi di cuoio legati al collo a mo’ di ciondolo. Si trattava di Che ci faccio qui?, il testo in cui Chatwin raccolse, pochi mesi prima di morire, quei frammenti della sua opera che avevano segnato altrettante avventure di un’unica avventura, la sua vita.

Al tempo, tuttavia, il mio onnivoro e adolescenziale “sfregare e limare” il cervello contro quello degli altri, mi spingeva più verso i lidi della dissertazione filosofica o del grande romanzo ottocentesco, così non diedi troppo peso a quel libro e lo riposi. Più avanti, mentre tentavo di mettere insieme tutti i tasselli di una collana sulla letteratura di viaggio novecentesca, mi ritrovai tra le mani un librone di quattrocento pagine, giallognolo, dal titolo invitante: Le vie dei canti.

Ancora Chatwin, ancora per caso. Divorai in un paio di pomeriggi, e così feci con tutto il resto delle sue opere. Oggi, mi chiedo con sempre maggiore insistenza: chissà cosa avrebbe pensato Chatwin nel vedere com’è ridotto il mondo? O meglio, cosa avrebbe scritto Chatwin del mondo così com’è ridotto. Eppure, in quale direzione stesse andando, l’aveva ampiamente capito. Quel piccolo ma folgorante capolavoro che è Utz, libro-testamento uscito nel 1988, suonava come il monito di chi sentiva l’avvicinarsi della fine: estrema rivolta contro la storia, contro lo sopraffazione e contro l’ottusità che stava accerchiando l’essere umano e la sua condizione.

A ben vedere, tutta la sua opera - da In Patagonia fino al postumo Anatomia dell’irrequietezza - è il tentativo estremo di afferrare per i capelli un intero mondo che stava lentamente svanendo, come si tiene stretta la mano di qualcuno sull’orlo di un precipizio. Prima ancora che viaggiare fosse low cost – in tutti i sensi, Chatwin andò in Araucania sulle tracce di un mitomane francese che girava per le Ande firmando patti di guerra con gli indios; nella Terra del Fuoco per incontrare gli ultimi yaganes, una popolazione che possedeva un vocabolario di trentamila parole, e ne adoperava una cinquantina per dire «mangiare il pesce»; a Ouidah, un vecchio villaggio di schiavi in Africa e poi a Bahia, in Brasile, dove gli schiavi venivano venduti; in Australia per indagare sulla tradizione aborigena dei canti rituali; per raccontare l’aria che si annusava alla fine del mondo, dove sopravvivevano alcune delle condizioni originarie dell'umanità, un momento prima che l’esito della secolare contraddizione tra la «sostanza umana e naturale» della società e il generalizzarsi dei rapporti mercantili prendesse il sopravvento.

Quell’incontro tra culture, antropologie e archeologie che Chatwin descrisse in maniera straordinariamente suggestiva, è oggi diventato uno scontro. Una contesa dove non importa più in nome di cosa si combatte, ma solo imporre - con ogni mezzo possibile - la propria visione del mondo. A qualunque costo, persino quello di distruggere voracemente tutto ciò che è venuto prima di noi. È per questo che, con ogni probabilità, se Chatwin fosse ancora vivo, si domanderebbe: «che ci facciamo qui?».

 

 

06-01-2015 | 00:06