Nell'arte ci vuole occhio

O come Occhio.

L’occhio è il centro, il nucleo, il tema fondamentale di qualunque discorso sull’arte. Ma, dopo secoli di analisi e ricerche, dalla fisiologia alle neuroscienze e dall’estetica alla psicologia, è ancora impossibile, senza correre il rischio di apparire ridicoli, dirne alcunché di compiuto e certo, marcato in modo inequivocabile dai caratteri della verità. Così, al semplice appassionato o al più illustre degli studiosi altro non resta da fare che arrendersi all’idea di accettare come unica possibilità quella di divagare. Nei casi più felici sfiorando il vero, talvolta suscitando convinzioni che rasentano l’evidenza, tal altra limitandosi a evocare solamente ombre di verosimiglianza. Comunque, in modo necessariamente asistematico e ondivago, percorrendo la strada delle ipotesi, dei ricordi, delle intuizioni e delle fantasie.   

Quello che segue è appunto un elenco di note, tracce e osservazioni sparse sul cammino della riflessione nel suo incedere dubbioso.   

OcchiO, come per caso, si scrive con una O all’inizio ed una alla fine. Due lettere tonde e simmetriche come un paio d’occhi sgranati.

L’occhio sta all’arte come il centro della Terra sta al pianeta. Materia magmatica e iridescente che determina la struttura del tutto, della quale alcuni sanno qualcosa, molti si chiedono qualcosa, tutti pensano qualcosa, ma che nessuno ha mai esplorato di persona.

Studiare “La lettera sui ciechi ad uso di coloro che vedono” di Diderot. Alighiero Boetti, che il libro lo conosceva molto bene, inseriva spesso nelle sue opere la scritta “I vedenti”, realizzata con una serie di fori che formavano le lettere. La si poteva leggere tanto con lo sguardo che ad occhi chiusi, sfiorandola con le dita. Apparve per la prima volta nel suo lavoro in un gesso del 1967.  Una superficie monocroma sulla quale Boetti aveva creato con la pressione dell’indice i buchi che componevano la parola, ottenendo una specie di Braille alla rovescia. Non c’era altro da vedere che un concetto, nient’altro da pensare che un’esperienza sensoriale.

Come e cosa sognano i ciechi ? La rivista “Cognitive brain research”, la più autorevole nel campo della ricerca sul sonno, risponde alla domanda citando uno studio realizzato dall’ università di Lisbona secondo il quale i sogni di chi non vede sono uguali a quelli di chiunque altro. Il che lascia supporre che per immaginare non sia necessario vedere. È improbabile che questa proposizione sia vera anche in senso inverso.

È noto che durante la seconda guerra mondiale, coll’avvicinarsi delle truppe di invasione naziste, il direttore dell’Ermitage fece trasportare le opere di maggior valore in un deposito sui monti Urali. Alle pareti di molte sale restarono solo cornici vuote. Ma le guide non interruppero le visite e i cittadini di Leningrado si recarono più numerosi del solito al museo, spinti dal desiderio di affermare il loro diritto di proprietà su quel patrimonio di inestimabile bellezza. Si racconta che, almeno due volte al giorno, folti gruppi di visitatori seguissero con devota attenzione le descrizioni dettagliate di tele delle quali non potevano più ammirare altro se non l’impronta di polvere lasciata sul muro. Molti di loro ascoltavano ad occhi chiusi.

Leggere e rileggere “L’occhio ascolta” di Paul Claudel. L’idea è quella che Orazio esprime con la formula ut pictura poiesis, ma la successione dei termini è rovesciata. Come si ascolta una poesia, si guarda un quadro. Vale a dire che in ogni grande dipinto si trova una composizione la cui unità avvolge lo sguardo e lo lega a sé con la forza del sentimento evocato, andando oltre la razionalità dell’attenzione prestata a ogni suo singolo dettaglio. L’immagine si rivela così come “un’atmosfera” immateriale, una musica, che l’occhio può solo ascoltare.

Nel suo bel libro “Dell’Italia – Uomini e luoghi”, Vittorio Sgarbi dedica uno scritto a Roberto Longhi nel quale si legge : “Illustrare un quadro non deve essere spiegazione di quello che si vede, ma rivelazione di quello che non si vede”. E, poco oltre,  “…lo storico dell’arte ha di fronte un teatro di fantasmi”. “Come Monet davanti alla natura, Longhi davanti alla pittura è soltanto un occhio, un enorme occhio”, “…la funzione critica ha come compito quello di dare, attraverso le parole, il senso e il sentimento di un linguaggio legato agli occhi. E se dagli occhi viene l’immagine, dagli occhi deve venire la parola. Longhi ha inventato un linguaggio visibile, una parola figurata che aumenta le nostre capacità di vedere”. Pensieri che suggeriscono ancora una volta di indagare il nesso che lega il guardare all’ascoltare.

Goya iniziò i disegni preparatori dei Capricci durante la convalescenza seguita ad una malattia che lo rese completamente sordo. Nella tavola più famosa fra le ottanta che compongono la raccolta, El sueño de la razon, il pittore si ritrae ad occhi chiusi, circondato da visioni e fantasmi. Sordità e cecità che producono immagini fantastiche, mostri, esseri prodigiosi fuori dall’ordine della natura. Dove nasce l’immaginario? Nei reconditi della coscienza dove la ragione non ha accesso e che siamo soliti chiamare sogni?

L’aggettivo “OniricO” ha una O all’inizio ed una alla fine (vedi OcchiO).

Nell’ultimo libro della sua vita, “L’occhio e lo spirito”, Maurice Merleau-Ponty scrive : “Giacché non lo guardo come si guarda una cosa, non lo fisso lì dove si trova e il mio sguardo erra in esso come nell’alone luminoso dell’ essere, più che vedere un quadro, io vedo secondo quel quadro o grazie ad esso”. Osservazione quanto mai profonda sul modo in cui la pittura plasma lo sguardo.

“L’insistere dinnanzi agli occhi di oggetti appassionatamente amati od odiati indica che, dalla sensibilità, si è ormai passati all’ambito dello spirito “. Così scrive Goethe nella “Teoria dei colori”, dando ad intendere che l’occhio non sia l’organo di un solo senso, ma anche quello del sentimento. Il che aiuta a capire per quale motivo Leonardo lo definisse “finestra dell’anima” nel suo “Trattato della Pittura”.  

La lettera O di occhio sta nel centro dell’alfabeto come la pupilla in centro all’iride.

Occhio del ciclone. La tempesta spinge Ulisse fino all’ occhio del Ciclope. Polifemo accecato vede Nessuno. Gli occhi senza vista di Omero hanno visto tutto quanto.

Tiresia era cieco, ma aveva il dono di vedere il futuro. Quando Liriope, madre di Narciso, gli chiese se il figlio sarebbe giunto alla vecchiaia, il profeta rispose che la cosa sarebbe stata possibile solo se il giovane “non avesse mai conosciuto se stesso”. La ninfa Eco vide il bellissimo ragazzo all’età di sedici anni e se ne innamorò, senza essere corrisposta. Il suo dolore fu tale che si ritirò a vita solitaria in una valle, consumandosi poco a poco, finché di lei non rimase che la voce. La dea Nemesi ne udì i lamenti e decise di punire Narciso. Lo spinse verso uno stagno nel quale il giovane vide per la prima volta la propria figura riflessa sulla superficie e la trovò bella a tal punto che ne fu sedotto. Fu così che perse la vita affogando in quelle acque ferme. In questo mito c’è materia sufficiente per riflettere tutta la vita sulla vista, i sensi, il sentimento, lo sguardo, l’ascolto, l’immagine e la bellezza.

In un Autoritratto del 1972, Gilberto Zorio ha inserito due stelle al posto dei propri occhi. Il volto dell’artista è modellato in una pelle animale, carnale e terrestre, mentre il suo sguardo si rivolge talmente oltre da diventare il riflesso degli astri celesti. Che l’occhio sia lo specchio senza il quale il creato non avrebbe immagine è un’intuizione profonda e colma di poesia. In un’ottica speculare, la si può anche ribaltare. In effetti, che altro sono i famosi buchi neri se non immense pupille, disseminate sull’iride del cosmo, che assorbono tutta la luce, compresa quella dei nostri occhi ? E come due specchi posti uno di fronte all’altro, l’occhio e il tutto rinviano all’infinito l’uno l’immagine dell’altro.  

 

- continua -

 

 

 

 

02-05-2016 | 09:19