Menu con l'articolo e nuova cafocrazia

Permettetemi un’invettiva personale. Odio i ristoranti con l’articolo. Che vuol dire? Semplice, sono quelli sul cui menu non troviamo il nome del piatto che vorremmo mangiare – che so, Coda alla vaccinara – ma lunghe descrizioni del tipo: La piccatina su un letto di squame di sirena e rucola, o Il filettino di criceto glassato in aceto balsamico e cacao amaro.

La nuova ristorazione italiana, emersa passo passo con la nuova cafocrazia che ci domina, ci impone  anche reggimenti prussiani di posate, piatto, sottopiatto e piattino, e battaglioni di bicchieri a stelo lungo e calice così stretto da non dar mai luogo al mio povero nasone. Implica anche stupide cerimonie di finto lusso e finta raffinatezza, quali lunghe discussioni con il cameriere-sommelier su annata, vitigno, cuvée – unica parola francese che ogni arricchito o finto tale malpronuncia con sussiego – indi, sciabordio d’un goccio di vino in bicchierone a stelo lungo e calice stretto, assaggio e risciacquo denti, sempre da parte del cameriere, e finalmente deposizione liturgica di due gocce due di vino sul fondo di uno dei vostri tanti bicchieroni. Segue allontanamento della bottiglia, fuori della portata di vostra mano: se vogliamo bere dovremo sempre dipendere da lui.

Dopo avervi annoiato a morte con il vino, il cameriere si periterà, all’apparire di ogni vivanda, di fornirvi una dettagliata descrizione orale di ingredienti e tecniche di cottura – capiamo così che la descrizione scritta, con l’articolo, sul menu, era solo una breve sintesi, un abregé ad usum delphini. Si ha sempre l’impressione che alla fine ci interrogheranno e ci daranno un voto, dopo averci depredato il portafoglio. Odio anche e soprattutto il tipo di cucina che vi si pratica. Detesto quest’idea di cucina-lego, a montaggio, dove numerosi ingredienti, sempre troppi e spesso bizzarri – alcuni immancabili, come la rucola coltivata, dal sapore farmaceutico, l’orrendo, dolciastro, aceto balsamico, o l’extravagante polvere di caffè – vengono assemblati per addizione, senza che mai i sapori si fondano. Alla vista, poi, l’assemblaggio finito offre minuscole cacchine vaghe e striminzite, dai colorini sfiziosi, deposte su piattoni vasti come piazza San Pietro.

Ho gusti molto frugali, e muoio di disperata nostalgia per le vecchie cose semplici, pasta e ceci, baccalà lesso con un filo d’olio, che non sia il morchioso e fetido olio Extravergine – spesso di fronte a quegli oli densi, verdastri e morchiosi, mi sento Maria Goretti, Supervergine. Ah, mio olio lieve e fluido dei miei oliveti del Garda quand’ero bambino! – du’ alicette fresche fritte, un bel cupolone di tagliatelle al ragù.

Dio, che nostalgia! Ma questo vuole la cafocrazia, e io esco da questi luoghi di pena – dove tra l’altro, tale e il tramestio di camerieri attorno a voi che non si riesce mai a parlare tranquilli – sconvolto nel cuore, con più fame di prima e vado a mangiarmi una fragrante rosetta al prosciutto da un buon salumiere.

 

 

30-07-2015 | 10:17