L'introverso, colto, sensibile Adriano

Nella storia di Roma è raro incontrare una figura di imperatore come quella di Publio Elio Adriano, che incarna la diversità rispetto ai suoi predecessori per abitudini e carattere: introverso e acculturato, sensibile e gioviale, ebbe il governo di Roma e dei suoi immensi territori dal 117 al 138 d.C.

Bello d’aspetto e amante della musica, Adriano portava la barba alla maniera dei Greci e si intratteneva in lunghi soggiorni lontano da Roma. Avversava il caos dell’Urbe e la condotta indolente di molti tra i suoi predecessori, attorniati da uno stuolo di servi, pretoriani e familiari. Si tenne piuttosto impegnato: inaugurò con carisma una politica di riforme, tolleranza e diplomazia. Mise fine alle estenuanti battaglie per annettere regioni remote geograficamente e culturalmente da Roma (come la Mesopotamia) e scelse una politica di consolidamento dei confini senza schierare le legioni sul campo di battaglia, se non quando strettamente necessario. Esempio lampante della nuova condotta è la creazione del Vallo di Adriano, nuovo confine dell’impero, del quale esistono ancora oggi resti archeologici, annoverati come Patrimonio dell’umanità dall’UNESCO: un lungo muro fortificato divideva la Britannia (l’Inghilterra attuale) romana dalla Caledonia (la Scozia attuale) non romana.

Il Vallo e molteplici altre opere edilizie testimoniano la passione dell’imperatore Adriano per l’architettura. Licenziò Apollodoro di Damasco, architetto ufficiale del predecessore Traiano, e progettò da sé la costruzione del ponte Elio – oggi ponte Sant’Angelo – e del tempio di Venere e Roma, oltreché il restauro del Pantheon, già messo in piedi da Agrippa. Seguì personalmente i lavori della villa di Tivoli con l’apparato di terme, piscine, fontane, un teatro marittimo, sale affrescate, che divenne la sua raffinatissima residenza privata. Castel Sant’Angelo, nulla togliendo ai papi, fu ideato e creato da Adriano come mausoleo proprio e della famiglia, come un tributo gentile alla Morte sulle sponde del Tevere. Atene, città che, perso ogni ruolo politico, era considerata dagli intellettuali di ogni provenienza Patria culturale e spirituale, rifiorì architettonicamente con una nuova biblioteca, il ginnasio e l’Olympeìon (tempio di Zeus Olimpio).

Questo sguardo privilegiato ad Atene è sintomo del rispetto sacro dell’imperatore verso la cultura greca. Che i rapporti tra Roma e la cultura greca fossero tormentati è cosa nota: gli Scipioni, impregnati di filellenismo, furono sbeffeggiati dall’Intellighenzia romana conservatrice (Catone & co.); Catullo e Licinio Calvo, eredi della poesia ellenistica, furono derisi come “pappagalli” dal petulante Cicerone; Nerone con la partecipazione ai giochi olimpici confermò la terribile opinione che avevano di lui a Roma. Insomma, i tempi erano duri per gli amanti del mondo greco. Adriano si mostrò anticonformista non solo nella condotta di vita, ma anche nelle scelte culturali marcatamente filelleniche: apprese il greco, fu iniziato ai misteri eleusini, si interessò al platonismo e all’epicureismo, scrisse poesie in stile ellenistico. I Romani, abituati com’erano a imperatori che si dimenavano tra congiure a corte, problemi ereditari, provvedimenti fiscali e amministrativi emanati nel chiuso dei loro cubicula, furono scossi dal carattere di questo imperatore che a Roma non c’era quasi mai e che cristallizzava in forma poetica le pulsioni del suo animo.

Eppure l’impero in quegli anni fu solido, Adriano morì di morte naturale – una rarità tra congiure e pretoriani senza scrupoli – e non fu mai avversato nelle scelte di governo. Il gioco valeva la candela: era come se, in cambio della garanzia di pace e prosperità, i sudditi perdonassero al loro governatore quelli che ritenevano vizi e stranezze. Tra questi ce n’era uno, che sicuramente fece storcere il naso a molti. Adriano era notoriamente omosessuale e senza falsi pudori amò con tutto il cuore un giovinetto bello e sensuale: Antinoo. Prese comunque moglie, perché così voleva il costume romano: i due coniugi non si amarono mai, il loro rapporto fu plasmato su una taciuta indifferenza in nome della convenzione sociale. Sabina sorvolò altezzosamente sui pianti disperati del marito in occasione della morte di Antinoo. Sculture ritrovate in molte città dell’impero e riferimenti letterari testimoniano la passione totalizzante e cieca che animò i due amanti. Margaret Yourcenar insiste molto su questo aspetto nelle sue Memorie di Adriano, l’immaginaria autobiografia rielaborata su scritti autentici, che l’imperatore scrive al termine della vita. Il racconto è intenso, lucido, nostalgico: dalla pagina emerge non il politico, ma l’uomo, con il suo carico di debolezze, ambizioni e ricordi, che parla di sé a sé stesso con profondità emotiva e sensibilità lirica.

Sul capolavoro della Yourcenar si innesta uno spettacolo teatrale che in 18 anni ha avuto settecento repliche e ha portato a teatro seicentomila spettatori: si tratta di Memorie di Adriano, diretto da Maurizio Scaparro e interpretato da Giorgio Albertazzi, il quale ha ammesso che quello di Adriano è il suo principale personaggio degli ultimi vent’anni. In Adriano è possibile trovare il ritratto dell’uomo moderno, privo di radici, calato in un mondo di superstizioni ed estremismi, come lo era l’uomo romano nel II secolo d.C., epoca di dubbi e incertezze, quando negli dei tradizionali si credeva ormai poco e il cristianesimo non si era ancora diffuso. La voce di Albertazzi recita i versi di Adriano, imperatore-poeta, con delicatezza e forza insieme, bloccando il tempo e il respiro:

Animula vagula blandula,
Hospes comesque corporis,
Quae nunc abibis in loca
Pallidula rigida nudula,
Nec ut soles dabis iocos

Piccola anima smarrita e soave,
compagna e ospite del corpo,
ora scendi in luoghi
incolori, ardui e spogli,
ove non avrai più gli svaghi consueti 

 

 

18-08-2014 | 23:35