L'infinito vino del Portogallo

Le coincidenze. Un album di Francesco Guccini che si chiama Radici, pubblicato nel 1972, una bellissima canzone che racconta l’Oceano infinito e lo straniamento dell’uomo di fronte all’universo, al senso della morte, alla vita. Tutto attorno, lo immagini soltanto, il colore verde bottiglia del Portogallo.

Il Portogallo non è un paese è una serie di cose diverse; c’è una striscia continentale bagnata dal mare, con due grandi città e molta terra dalle molte tinte, ci sono le isole, le Azzorre, Madeira e Porto Santo e poi ci sono le colonie, che sono memoria collettiva, ricordo dell’Impero: il Brasile, Capo Verde, l’Angola e il Mozambico. C’è una sola lingua dalle diversissime cadenze e ci sono molti uomini di queste terre che abitano il continente e non “sono” continente: sono altro da sé, sradicamento, partenza e ritorno. Il simbolo del Portogallo è il molo, luogo delle lacrime di sale dell’addio e struggimento malinconico di chi resta a casa ad aspettare (il Fado è questo canto). Il Portogallo è sorte, destino, desassossego (inquietudine) scriveva Fernando Pessoa.

È incertezza del futuro, precarietà, assenza: essere uno in tutte le sue sfumature, oppure altro da sé, con altre sfumature. La vita è comunque viaggio e questo viaggio, che avvenga dentro oppure fuori, è desiderio di scoperta ma anche rimpianto per ciò che si lascia.

E in un viaggio (in questo caso per vini, ma poco importa: saranno approdo per lenire i pensieri) l’unico bagaglio essenziale è fatto da questi compagni, scrittori e poeti.

In questo paese atlantico, che a volte sembra disperato e a volte intelligente, è in larga parte l’acqua (il mare e il fiume Douro) a connotare il vino. Madeira e Porto sono paradigmi di un’esigenza commerciale antica che è diventata caratteristica intrinseca dei vini stessi, la fortificazione: il trasporto in nave con l’obbligo di una perfetta conservazione durante il lungo tragitto verso il mercato di riferimento, il Regno Unito.

E il viaggiare inizia proprio da Porto, città di vento e di sali e scendi sul grande, lento scorrere del fiume. Seduti ai tavolini all’aperto del ristorante A Badia, dopo un pranzo del baccalà in tutti i modi, nella perfetta e immobile canicola di un pomeriggio di maggio, alziamo un bicchierino.

Porto Colheita, Quinta do Noval; si dovrebbe scegliere l’introvabile Nacional (ufficialmente non in commercio e che proprio per questa ragione spunta prezzi da capogiro, proviene da 5000 piante franche di piede, antecedenti l’avvento della fillossera) ma preferiamo l’alcol avvolgente di questo vino che si sofferma in botte per anni prima di essere messo in commercio. Il colore, come ricorda il nome della tipologia, Tawny, è quello del bronzo. Al naso ci sorprendono profumi eterei, speziati e intensissimi. L’ingresso in bocca è molto profondo, con l’avvolgenza della frutta sotto spirito che vira verso quella secca, portandosi con sé un florilegio di spezie d’oriente. Al tavolo con noi, lo immaginiamo, sarà il caldo, uno degli eteronimi pessoani più delineati, Alvaro de Campos, ingegnere anglofilo laureato a Glasgow, dandy ozioso, alto, elegante, con i capelli neri e la riga da una parte che sussurra: “… Nulla mi lega a nulla. Voglio cinquanta cose nel medesimo tempo… definitamente per l’indefinito… dormo irrequieto e vivo in un sognare irrequieto, mezzo sognando…”.

Adesso è Lisbona, umida e lenta, è sera, una sera che volge a mezzanotte, siamo nel Bairro Alto, sotto una veranda di glicine; a farci compagnia una bottiglia di

Tapada de Coelheiros Branco, vino facile dell’Alentejo che profuma di frutti gialli e di fiori secchi. Le nostre mani puzzano di crostacei, alzo lo sguardo e c’è, ci sembra davvero di riconoscerlo, Alberto Caeiro, il Maestro di Fernando Pessoa e di tutti gli altri suoi eteronimi. Ci guarda con i suoi occhi chiarissimi e la sua calma essenziale: “… il mio sguardo azzurro come il cielo è calmo come l’acqua al sole. È così, azzurro e calmo, perché non interroga, né si sorprende… Se interrogassi o mi sorprendessi non nascerebbero fiori nuovi sui prati, né muterebbe qualunque cosa al sole in modo che diventasse più bella…”.

Nel Dao, invece, in un villaggio vicino a Viseu, ha appena finito di piovere, in un bar mangiamo pane azzimo e formaggi e beviamo un vino rosso di spessore e intensità, prodotto da queste parti:

Casa de Santar, Nelas Tinta Roriz, caldo, accogliente, semplice, ruvido.

Da solo a un tavolino, si intravede il profilo monarchico e solitario dell’eteronimo Ricardo Reis, mentre sussurra: “Nel ciclo eterno delle cose mutevoli, nuovo inverno, dopo nuovo autunno torna a differente terra, nella stessa maniera…”.

Via, verso il mare, Oceano infinito, su una spiaggia del sud, magari a Tavira nell’Algarve meno turistica, il sole, solo il sole, il sudore sulla pelle, il sale appiccicoso che ti ricorda le cose. Un vinho verde secco (gioco del destino, proviene dall’estremità nord-occidentale del paese)

Quinta da S. Claudio, Curvos, Esposende, leggero, accennato, frammentato, colore pastello, sottile ed esile, a ricordare la caducità delle cose.

La spiaggia e l’eterno ritornare delle onde. Una mare di persone accanto a noi.

José Saramago, Manuel Alegre, Antonio Lobo Antunes, Antonio Tabucchi qualche altro eteronimo stanco di viaggiare, tra tutti Bernardo Soares, forse anche Abilio Quaresma.

E poi c’è la bambina portoghese: “… sentì che era un punto al limite di un continente, sentì che era un niente, l'Atlantico immenso di fronte...”. 

 

(foto di Francesco Orini)

 

 

26-05-2014 | 23:45