Le dieci regole del perfetto Hipster

Grandi occhiali dalla montatura rigorosamente nera, di quelli in voga negli anni settanta. Capelli tagliati molto corti ai lati ma con un ciuffo ribelle sulla fronte. Barba lunga di molte settimane ma molto curata e per finire un bel paio di baffi che finiscono a riccio. È la rivisitazione molto riveduta e assai corretta di un ritratto di Abbot Kinney, industriale americano della fine dell'Ottocento, fondatore di Venice, a Los Angeles.

Il dipinto – un murales stencil per essere corretti – è apparso sui muri di Abbot Kinney Blvd, prorpio a Venice di fronte alla galleria d'arte World Wide Mind (foto sopra). L'idea è di Flavio Kampah, artista italiano, che qui sta esponendo i suoi ultimi lavori (www.kampah.com). Ma la particolarità del ritratto di Kinney è che il fondatore di Venice è stato rivisto in versione hipster. E questa importante opera ci consente di parlare di questo particolare stile di vita.

Prima di tutto: cosa significa hipster? Una moda, una filosofia di vita, un modo di essere, fate voi. Sta di fatto che ormai da qualche anno gli hipster spopolano nelle capitali di tutto il mondo. Se così è, di seguito un breve glossario della vita hipster ad uso dei meno avveduti per districarsi nell'ultima filosofia di vita di questo secolo.

Vestiti. Indossa magliette stencilate, cappelli di paglia a tesa corta, felpe larghe, cardigan, All Star alte, Vans nere sfondate; è esperto di sneakers ma ha un calzolaio di fiducia per le calzature stringate vecchio stile. Camicie da boscaiolo, berretto di lana, giacca con le toppe sui gomiti. I pantaloni devono essere rigorosamente attillati, più che a sigaretta, con l'immancabile risvoltino sulla caviglia. Non esce mai senza la sua borsa a tracolla.

Look. Lo si riconosce soprattutto da quel che ha al suo viso: baffi semplici o arricciati, più folti che alla siciliana, barba da pioniere ottocentesco americano. Gli occhiali sono importantissimi, enormi dalle montature antiche, dal primo Novecento agli anni Ottanta anche se di solito – è inutile dirlo - l'oggetto è del tutto superfluo: l'hipster ci vede benissimo. Taglio di capelli asimmetrici come se il barbiere fosse ubriaco, anche se di solito dal barbiere non ci va preferendo l'amico di fiducia o un autoscalpo davanti allo specchio. Tanto il risultato è lo stesso. Tatuaggi: tanti, colorati e chiaramemte mai scontati, con significati magici e astrusi che conosce solo lui. In genere se la tira ma senza averne l'aria.

Mangiare. L'hipster ama fare la spesa ma solo di cibo organico, a chilometro zero, bio, senza grassi aggiunti e il più naturale possibile. Sa riconoscere a naso se un petto di pollo viene da un animale cresciuto in batteria o libero di scorrazzare nei campi. Non disdegna comunque le più perfide porcate del cibo di strada, Mc Donald compreso, anche se non lo dice in giro, perché non fa fico. La linea non gli interessa affatto anche se tutti si chiedono come faccia ad entrare in quei pantaloni attillati. Impossibile rinunciare al brunch – possibilmente alcolico – della domenica pomeriggio.

Bere. Beve sambuca e birra, ma rigorasamente se artigianale e possibilmente introvabile. Ama la pancetta tipica del bevitore di bionde.

Passatempi. I social, innazitutto i social network. Da consultare solo con un Mac Book ultimo modello o fuori casa con un Iphone per taggare le foto su Istangram. Bandito dal mondo dell'elettronica ogni cosa che non abbia appiccicata una mela con un morso. Quindi arte, cinema skateboard, sesso ma estremo. Ama proiettare documentari artistici in piccole sale sfasciate; spesso ripara vecchie bici, ma senza cambio per carità. Va alle feste ma solo se sono sui tetti o in cortile o negli studi di artisti. Ha una passione per il kitsch, acquistato al bazar cinese di fiducia; colleziona amplificatori valvolari e dischi di vinile. Sempre comunque annoiato di tutto e di tutti.

Letture. The White Negro di Norman Mailer è il vero libro cult come anche Frank Tirro con Jazz: a History; Sulla Beat Generation di Jack Kerouac; quindi David Foster Wallace, Bret Eston Ellis, Nick Hornby, Bukowski... Basta che il libro sia sconosciuto ai più e possibilmente fuori catalogo, reperibile solo su qualche bancarella di libri vecchi a un euro.

Musica. Qualsiasi, di ogni tipo a patto che – come tutto il resto – non sia mainstream. Il più possibile sconosciuta come il flamenco cecoslovacco, il valzer guatemalteco e la mazurka filippina. L'importante è che alla fine il nostro possa dire: ve l'ho fatto conoscere io. Banditi chiaramente i concerti commerciali, ama solo le esibizioni intime con al massimo una trentina di persone. Mai e poi mai ascolta musica da cd, solo su vinile o chiaramente su ITunes.

Sport. Assoultamente nessuno, tranne cavalcare la bici appena riparata, si intende.

Locali. Vintage, appena aperti, di amici degli amici e di conoscenti; stracolmi di oggetti da rigattiere anni settanta, messi a posto, riutilizzati, verniciati, ma non troppo. Rifugge tutto ciò che è alla moda perché la moda di solito è lui a dettarla.

Luoghi. Innanzitutto qualsiasi mercatino dell'usato. Quindi più di preciso: a Londra Hoxton e Shoreditch sono rinomate aree hipster. A Parigi Belleville, mentre a Berlino Prenzlauer Berg. Negli Stati Uniti, Williamsburg a Brooklyn, Echo Park a Los Angeles, Mission District San Francisco, Uptown a Minneapolis, Wicker Park a Chicago. In Canada, il quartiere Mile End a Montreal. Bologna è in Italia la città hipster per eccellenza, ma i nostri non disdegnano la capitale riunendosi al Pigneto, Monti e Testaccio.

01-06-2014 | 00:00