L'ambizione di salire, la paura di scendere

V come verticalità

Valore - Da che mondo è mondo ciò che sta sopra ha più valore di ciò che sta sotto. Il Paradiso in cielo e l’Inferno sottoterra sono solo l’esempio più scontato. Ma, se si presta attenzione alla lingua parlata, si possono trovare decine di espressioni fondate su questo principio. “Quelli dei piani alti”, “le alte sfere”, “linguaggio alto” e “gergo da bassifondi”, “uomo di alta statura morale” e “personaggio capace di ogni bassezza”, “le vette del sapere” e “l’ignoranza abissale”, “umore alle stelle” o “morale sotto i piedi”, “superuomo” o  “subumano” e si potrebbe continuare a lungo. L’aggettivo “superiore” è definitivamente sinonimo di migliore, così come “inferiore” significa senza dubbio peggiore. E, se “ascesa” suggerisce orizzonti felici, “discesa” o “caduta” parlano inevitabilmente di disastro. È indiscutibile che la tensione verso l’alto rappresenti un contenuto a priori del bagaglio culturale di ognuno, un valore massimamente desiderabile fin dai primi anni della nostra vita, compresi quelli che precedono l’età della ragione. Chi ha mai visto due bambini litigare per il posto di sotto in un letto a castello?

Storici e filosofi, da Sallustio a Kant per citare solo due esempi, hanno individuato nella posizione eretta, che ci distingue dalle altre specie animali, il segno tangibile della nostra superiorità o perfino di un’elezione divina. A loro modo di vedere, il fatto di allontanare la testa da terra e spingere lo sguardo verso il cielo indica la natura spirituale dell’essere umano. Georges Bataille è giunto al punto di situare nella peculiare postura dell’homo erectus, divenuto poi homo sapiens, il fondamento fisiologico della sua razionalità. In quanto, bocca e ano non trovandosi più sulla stessa linea orizzontale prossima al suolo, la pulsione alimentare della bestia sarebbe stata soppiantata dalla facoltà di raziocinio propria all’uomo.

Quanto alle maggiori religioni, poi, la valorizzazione della verticalità è elemento comune e dominante. Il cristianesimo considera l’ascensione di Gesù, che si riunisce fisicamente al Padre per non riapparire più, come il compimento della sua missione terrena. Numerosi testi midrashici dell’ebraismo fanno salire Mosé fino al settimo cielo perché la teofania possa avere luogo. E, per la teologia islamica, Janna (il paradiso) si trova solo sotto il trono di Allah che sta sopra il cielo più alto. Facile capire perché l’elevarsi venga comunemente vissuto nell’immaginario come un percorso verso il bene.

Il cielo assume così i connotati di luogo del più intenso piacere e della massima libertà. Ma, la condizione di euforia che conosce chiunque lo raggiunga è tale da potersi trasformare in eccesso e mutare il bene in male. Il mito di Icaro o le parole della Genesi relative alla Torre di Babele ci ricordano proprio questo, cioè che la capacità umana di superarsi (porsi al di sopra di sé) può anche diventare sfida alla divinità, vale a dire superbia. E il castigo che ne consegue è invariabilmente il trionfo della gravità, la caduta, il crollo. Questo sembra essere il destino dell’uomo, Subir y Bajar (Salire e Scendere), come si intitola la tavola 56 dei Capricci di Goya, nella quale una figura diabolica solleva da terra un personaggio i cui capelli prendono fuoco prima che precipiti con la testa all’ingiù.   

Quindi, il massimo valore (anche nel senso di valentìa) cui un essere umano possa ambire consisterebbe nel salire tanto in alto da raggiungere l’ultimo punto della verticale oltre il quale la caduta diverrebbe inevitabile. Abbastanza elevato da toccare il cielo con un dito, ma non tanto da finire gambe all’aria. Perché, si sa, l’uomo si arrampica, ma non può volare. Non è puro spirito, ma anche massa corporea. E il trovarsi costantemente in tensione tra la terra ed il cielo è proprio alla sua natura – “corda tesa tra la bestia e il superuomo” scrisse Nietzsche. È così che le figure di ascesa verticale, diretta e al tempo stesso solidamente radicata, rivestono una tale importanza nell’immaginario iconico. L’albero, che nella forma simbolica riunisce le radici della natura e i rami della cultura, la scala, che indica la gradualità di ogni salita, la colonna, che è spina dorsale di ogni edificio, o la torre che rende manifesto e durevole il potere di chi abbia saputo conquistare un pezzo di cielo.

Così, da sempre l’arte ha tradotto queste figure in opere. Ognuno di noi ha negli occhi l’immagine de “L’Albero della Vita” che, prima ancora di essere un sontuoso dipinto di Klimt, fu il diagramma cabalistico con il quale gli antichi Ebrei descrissero la creazione divina del macrocosmo e quella umana del microcosmo. Oppure la Piramide di Saqqara, la più antica tra tutte, che è costruita a gradoni come una gigantesca scala sulla quale intraprendere la salita verso il mondo ultraterreno. O ancora, la Colonna Traiana, che in origine sosteneva una statua bronzea dell’imperatore e il cui fregio si sviluppa in spirale ascendente per celebrare la gloria militare di Roma, cioè la costruzione di quell’immenso edificio che fu l’impero. E infine, la Tour Eiffel o l’Empire State Building, architetture avveniristiche che, in tempi più recenti, furono destinate a rendere universalmente visibile la potenza di coloro che detenevano le chiavi del progresso.

Verticalità – A Tarragona, in Catalogna, è possibile ammirare ancora oggi una delle più belle e inconsuete forme di celebrazione della verticalità che siano giunte fino a noi da un passato remoto. Si tratta dei castells, le torri umane formate dagli “Xiquets de Tarragona”.

Al numero 1 di Carrer Santa Anna, poco sopra i resti del pretorio romano, si trova un palazzo rinascimentale nella cui corte si allena due sere la settimana, dopo il lavoro o la scuola, questa straordinaria compagine di cittadini-acrobati. Malgrado il nome, non è composta solo da bambini - come vorrebbe una traduzione letterale - ma da famiglie intere, uomini e donne, giovani, gente matura, ed anche anziani. La divisa uguale per tutti, una camicia di cotone pesante, un paio di pantaloni bianchi stretti in vita da una fusciacca nera e i piedi rigorosamente scalzi, rende impossibile distinguerne il mestiere, la professione o il ceto sociale, i cui indizi possono forse apparire solo sulle mani di ognuno.  

Intorno a questa folla – un abbondante centinaio di persone – che entra ed esce dal palazzo, chiacchiera, ride, fuma sigari e sigarette, si disperde in gruppetti o si agglomera in capannelli più nutriti, gira il capitano. Tiene in mano un foglietto sul quale ha scritto le diverse formazioni e osserva i presenti con grande attenzione, quasi stesse ispezionando un terreno scosceso. Poi, ad un tratto, chiama alcuni nomi a voce alta ed il brusio scema di colpo. Nel centro della corte, quelli che hanno risposto alla chiamata formano la base della torre, tenendosi saldamente in cerchio o in quadrato. Subito dopo echeggiano nuovi nomi e un secondo anello di persone si stringe tutt’intorno al primo, mentre altre si infilano da sotto e ne vanno a consolidare il nucleo. Una nuova chiamata e partono quelli che formano il primo piano. Salgono sulle spalle dei compagni velocemente, con notevole sicurezza. A seconda delle diverse figure sono tre o quattro, solo uomini e molto forti. Nel frattempo, il silenzio si è fatto assoluto. Ancora una chiamata e parte un terzo anello di contenimento intorno alla base. Poi, di nuovo la voce del capitano e si arrampicano i componenti del secondo piano. Per lo più donne e ragazzi. E così di seguito, con agile destrezza montano rapidamente sulle spalle di chi li sostiene, fino a un settimo e talvolta ottavo piano, fatti di persone sempre più esili e giovani, mentre i lineamenti di ogni volto tradiscono una concentrazione ormai prossima al rapimento. Fino a quando è tempo di far salire la guglia della torre, il vertice estremo. Un bambino di una decina d’anni.

Una volta che lo Xiquet ha compiuto il miracolo di arrivare in cima, la torre umana si immobilizza per qualche interminabile istante, come se tutti si stessero aggrappando al cielo. Sospesi in una tensione che ha qualcosa di soprannaturale, vibrano simili alla corda di un arco un attimo prima di scoccare la freccia. Poi la voce del capitano, divenuta meno imperiosa, impartisce un ordine e il bambino si lascia scivolare giù, lungo i corpi dei compagni, con la facilità di uno scoiattolo sui rami di una quercia. La torre sembra finalmente respirare. Gli altri seguono a due o tre per volta e la verticale si dissolve, sciogliendosi armoniosamente, come una candela di cera d’api. Alla fine anche i componenti del primo anello lasciano la presa e il brusio sale di nuovo, più allegro ed intenso, mentre il capitano ricomincia il suo giro di ispezione. 

È uno spettacolo sbalorditivo e di rara bellezza. Di equilibrio tra forza e ragione, solidarietà e coraggio. Semplice nella sua estrema difficoltà. Una vera e propria opera, nella quale l’invenzione delle forme e la potenza dei simboli concorrono col virtuosismo dei gesti alla creazione di un tutto carico di significato e colmo di emozione. La potenza di una spinta orizzontale che si trasforma in energia ascendente, corpi che diventano architettura, persone che si amalgamano in una composizione comune esaltando le proprie abilità individuali, uomini che uniscono tutta la loro volontà, il loro vigore e la loro sensibilità al servizio di un disegno immaginario destinato a creare meraviglia, portare un bambino a toccare la volta celeste. Come per rendere visibile ciò che solo la fantasia, l’innocenza e la leggerezza possono raggiungere.  Ciò che solo l’arte può realizzare.

(continua)

 

 

05-09-2016 | 15:54