La teoria dei confini aperti

Da qualche mese l’Europa intera è alle prese con una questione divenuta nel tempo sempre più delicata: l’immigrazione ha messo le tende nel dibattito pubblico occupando quasi tutti gli spazi presenti, tra cultura e sociologia. Le recenti ferite inferte alla Francia dal terrorismo islamico hanno mischiato ulteriormente le carte, e la chiusura della frontiere è stata una delle prime azioni intraprese da Hollande.

Le stragi di Parigi peseranno senza dubbio sul dibattito, ma qui cercheremo l’impossibile: ovvero rimanerne per un attimo fuori. Sarebbe necessario aprire un’immensa parentesi geopolitica e storica.

Focalizzando l’attenzione sull’immigrazione nuda e cruda, in America alcuni studiosi hanno tentato di ribaltare un paradigma: mentre tutti si chiedono come limitare i flussi di persone, ci si è domandato prima di tutto se sia vantaggioso o no farlo.

La discussione sugli “open borders” (http://openborders.info) ha un pregio: il confronto avviene su una base di numeri e idee radicali, senza lasciarsi andare alle becere esagerazioni xenofobe o alla lingua pelosa del politicamente corretto. Bryan Caplan – studioso ed economista della George Mason University – parla chiaramente di abbattere ogni frontiera per creare un circolo virtuoso libertario in grado di aumentare esponenzialmente il prodotto interno lordo del pianeta. Partendo dal dato di fatto – chiamatelo pure pessimismo, ma la realtà parla chiaro – che le guerre continuano e continueranno, o che ci sarà sempre qualcuno deciso a spostarsi per ricercare migliori condizioni di vita, sarà inevitabile far fronte a tali situazioni.

Secondo gli “open borders” la mancanza di blocchi permetterebbe una più proficua distribuzione di risorse umane, in movimento grazie a scambi meno costosi e maggiormente rapidi. La rimozione di ostacoli geografici e politici fa ricadere la tesi nel calderone anarco–capitalista, dove chi caldeggia per il libero mercato non può essere parallelamente contrario al libero spostamento degli esseri umani. Inutile ammorbare il lettore con statistiche su aumenti di consumi e forza lavoro, sul numero di persone in fuga e sulla benzina che sarebbe così immessa nel motore economico globale. Una libera immigrazione del genere, secondo i più entusiasti, renderebbe tutti più ricchi, in un contesto simile all’America dei primi anni del 1900.

L’ipotesi, estremamente radicale, si scontra per forza con falle e lacune inevitabilmente da trattare.

George Borjas, studioso di Harvard considerato dal “The Wall Street Journal” come il miglior specialista per quanto riguarda il legame immigrazione ed economia, avverte i fautori dello stop alle barriere.

L’obiezione è di buon senso e fa leva sulla possibilità che il sistema economico di arrivo non sia adattabile a un flusso di persone così grande, l’immigrazione poi pone sul campo abitudini e stili di vita fortemente legati all'identità. La decostruzione sta annacquando le differenze, ma di certo permangono criticità evidenti; senza contare che viviamo in un mondo sottoposto ad enorme pianificazione.

Come si può notare, anche se spesso fingiamo di non vedere, la questione culturale erge muri che circondano la concorrenza mercantile; senza contare le differenti visioni capaci di aizzare una violenza estrema anche nelle terze o quarte generazioni, considerate ormai a priori perfettamente integrate.

In conclusione il forte senso libertario che sorregge la teoria degli “open borders” ha una sua coerenza quando si tratteggia una società privata e non collettivizzata o privatistica. Uno stato capace di spendere meno avrebbe certamente una gestione più oculata dell’immigrazione, ma davanti agli occhi abbiamo un altro panorama. Nonostante gli strali contro il famigerato neo liberismo le classi dirigenti sono sempre più in affanno e ripiegano verso una sclerotizzazione gestionale che allunga le competenze dello Stato. La presenza statale massiccia e una assimilazione incentivata a livello superficiale, grazie ad un generoso Welfare State, ha generato mostri. Gli “open borders” non saranno il jolly risolutivo, tuttavia far entrare nuove voci in circolo – corroborate da numeri – è un sicuro antidoto in più per non ricadere nei soliti vecchi errori.

 

 

30-11-2015 | 10:55