La poetica dello spleen di Parigi

Tra i tanti libri che si dovrebbero leggere in un viaggio adolescenziale, e che sarebbe bello perdere e ritrovare da adulti, c'è Lo spleen di Parigi di Baudelaire. La città è il tema comune a questi cinquanta "Petits poèmes en prose". Perderli e ritrovarli vent’anni dopo potrebbe servire a conferma che ciò che si legge e comprende a 15 anni non è meno vero e illuminante riletto e ripensato a 30 o a 50 e oltre, seppure meno intrecciato del proprio vissuto. Può accadere solo con un capolavoro, questo sì, ma càpita. Il libro (quasi una riscrittura in forma di prosa, libera dai vincoli formali della metrica, delle poesie dei Fiori del male, a cui spesso riporta) scaturisce, come spiegato nella dedica ad Arsène Houssaye, dal voler sperimentare una nuova forma espressiva: “È sfogliando almeno per la ventesima volta il famoso Gaspard de la Nuit di Aloysius Bertrand […] che mi è venuta l'idea di tentare qualcosa di analogo, e di applicare alla descrizione della vita moderna - o piuttosto di una vita moderna e più astratta - lo stesso procedimento che egli aveva applicato alla rappresentazione della vita di un tempo, così stranamente pittoresca. Chi di noi non ha sognato, in quest'epoca di ambizioni, una prosa poetica, musicale ma senza rima e senza ritmo costante, abbastanza flessibile e spezzata da adattarsi ai movimenti lirici dell'anima, alle oscillazioni del fantasticare, ai soprassalti della coscienza” ispirato, come “ideale ossessivo” scrive, “soprattutto dalla frequentazione delle città enormi e dall'incrociarsi dei loro rapporti innumerevoli”.

Dalla lettura dei cinquanta “quadri” che formano l’opera, si ha la sensazione di cogliere la forma, la struttura di città che la Parigi moderna si è data e che in buona parte resiste oggi; si evince quella che per approssimazione retorica (e insufficiente) chiameremmo “la natura” o “l’anima” della città, cioè i caratteri tendenzialmente immutati nelle relazioni tra i suoi elementi, umani e architettonici, quelli che ritroviamo, oscillanti e resistenti allo stesso tempo. È Roland Barthes a parlare con chiarezza illuminante della città come testo da interpretare nei suoi segni e significati. Dei secondi dice che hanno una durata instabile, che inevitabilmente si trasformano a loro volta in segni e arrivano poi a voler dire qualcosa d’altro, e l’obiettivo della ricerca dev’essere “la struttura” di una città e “che non si deve mai voler riempire”. Secondo Barthes, ciò che la città ostenta e si deve cogliere, è il suo significante, “la caccia al significato costituisce dunque una tappa provvisoria”. Il significato di una città, che il tempo, la storia, le occasioni possono certamente riempire dei loro contenuti, non rimane definitivo, non preclude alle trasformazioni del futuro. Come la nave Argo, scrive, che pur non avendo conservato le parti originali nel tempo, “è sempre la nave Argo, cioè una serie di significazioni leggibili e identificabili”. Potrebbe essere, questa, una delle chiavi di accesso de Lo Spleen di Parigi, perché è un libro che parla costantemente di relazioni dinamiche, dell’intrecciarsi di quei “rapporti innumerevoli” come Baudelaire stesso scrive nell’introduzione. I suoi quadri sono scene a più soggetti, hanno un inizio, uno sviluppo e una conclusione.

Gli episodi - più o meno brevi - sono incentrati su dialoghi, sull’ interazione tra i soggetti dello spazio urbano; piccoli racconti di episodi visti per strada, come osservati, tenuti a mente e annotati poco dopo, forse la sera stessa, seguiti da valutazioni di vario genere: dal disprezzo per la tonta, volgare superbia dei nuovi ceti borghesi, all’incanto per il cielo e la luce del sole sulle strade, alla descrizione di scene di vita sociale, dialoghi per le strade, davanti le vetrine dei negozi, nelle osterie. Talvolta si trova un tono come da parabola sacra. L’ironia più dissacrante arriva inaspettata, l’orgoglio prevale sulla pietà artefatta che si vuole scongiurare con tutta la forza possibile. E contrapposta ad essa c’è la coscienza, lucida, malinconica ed entusiasta allo stesso tempo, della “vita moderna”, del suo svolgersi in spazi e rapporti sociali in parte allora sconosciuti, colti come momenti di un insieme poliedrico, vago, non riducibile di fatti isolati tra loro nella “nuova Parigi” figlia delle trasformazioni del Secondo Impero. Ci sono i mestieri popolari, il gioco tra bambini, le vetrine dei negozi, le trattorie, le camere da letto. Anche diversi animali (cani randagi, asini, cavalli da tiro) sono protagonisti di alcuni quadri. Nella forma di prosa, i simboli della poesia perdono di intensità, d’altezza, si ridimensionano negli oggetti della vita quotidiana, del lavoro, nei desideri più comuni. Simboli riformulati della città “capitale del XIX secolo”, vista ad altezza d'uomo. Altezza che può toccare il cielo o l’abisso profondo, miseria, alcolismo, così come le gioie puerili. Il potere e i fasti sono snobbati, domina un’ idea differente di nobiltà, quella del flaneur, assoluta, libera. Nobile è il poeta del brevissimo dialogo del primo quadro, che disprezza l’oro e ama le nuvole (ma va letto per capire come tutt’altro che falso e retorico sia in realtà). L’ironia, ora sarcastica, ora gioiosa, accompagna nella lettura (non necessariamente in sequenza ordinata) del libro.

È un libro che potrebbe quasi dirsi più da tasca che da comodino. Parigi non è città facile, gratificante, comoda: nella sola poesia del libro, a chiusura dell’opera, è “capitale infame” e il poeta contempla l’arcana, forzosa fratellanza dei suoi figli prediletti, i più derelitti socialmente e ne è inebriato in tutti i suoi modi. Capisce Parigi come mondo di relazioni, come magma di trasformazioni microscopiche, di reciprocità che irrorano tutto il suo tessuto, che così gli appare nel suo senso precario ma irrinunciabile.

29-01-2014 | 02:18