La grande sbronza

Mi è chiaro che scrivere un articolo di critica al libro di un critico che critica la situazione critica nella quale si trovano l’arte e la sua critica è un po’come farsela addosso nel mezzo di un bar per ricordare al banconiere che non si deve dar da bere a chi è già brillo e punirsi al tempo stesso per avere tracannato l’ultimo bicchiere pur sapendo che non si sarebbe mai arrivati al cesso in tempo per non farsela addosso.

Ciònonostante, colpevolmente lusingato dal fatto che la pubblicità dell’ultimo saggio di Francesco Bonami citasse, per quanto in modo inconsapevole, le parole di un mio articolo (Fioridelmale 21-8-2016 : “c’è voluto un secolo di progresso per passare da un orinale di porcellana a un cacatoio d’oro”), mi sono deciso a leggerlo e a riferirne su queste colonne.

(Il lettore, ammesso che dopo il primo paragrafo ne resti almeno uno, crederà forse che io abbia effettivamente alzato il gomito e sia affetto da incontinenza, se non altro, verbale. Ma abbia fiducia e vedrà che di arte, ubriacature e cessi pertinentemente si tratta).

“L’arte nel cesso. Da Duchamp a Cattelan, ascesa e declino dell’arte contemporanea” è un volume agile, scritto con nonchalance, dal tono colloquiale e dal sapore vagamente ironico, infarcito di similitudini calcistiche e giovanilismi linguistici destinati ad accattivarsi le simpatie del pubblico meno esigente e più numeroso. Il tema è quello della definitiva perdita di senso di un’arte attuale che parla ormai solo di se stessa e, malgrado lo smisurato aumento dei frequentatori di mostre, si rivolge unicamente agli iniziati in uno sterile esercizio autoreferenziale. Bonami la chiama Arte Contemporanea, considerandola una vera e propria categoria storica alla pari del Romanticismo, del Simbolismo o di qualunque altro “ismo” noto agli studiosi, e grosso modo riassume in essa tutte le avanguardie che durante gli ultimi cento anni non abbiano percorso le strade tradizionali della pittura e della scultura (già defunte da tempo). Dall’arte dell’oggetto ready-made a quella del concetto, del progetto, del comportamento o dell’azione sociale. Dall’installazione alla performance, dallo scritto al filmato. Una categoria della quale il libro si propone di redigere un ufficiale certificato di morte per sopravvenuta desuetudine.

L’autore, però, non si prende cura di spiegare per quale motivo quest’interminabile ubriacatura di trovate provocatorie e sorprendenti banalità dovrebbe giungere alla sua ultima ora, a difetto di uno stravolgimento delle condizioni materiali e morali che l’hanno resa possibile e delle quali non fa menzione alcuna. In effetti, perché correre il rischio di annoiare il pellegrino culturale, mangiatore di mostre e lettore medio con una seria analisi storica? (Non va dimenticato che il titolo della “sua” Biennale era  “La dittatura dello spettatore”). Molto più gratificante l’idea di coinvolgerlo nel gioco in cui si sceglie cosa salvare e cosa buttare nel cesso. Che, a ben guardare, è un po’ lo stesso con il quale gli stilisti si divertono ad ogni nuova stagione, quando proclamano che, morto il rosa ciclamino, nasce finalmente l’era del verde pisello.

Così, Bonami, che con i magnati dei cataloghi di pret-à-porter ha molta familiarità, si lancia nella redazione di una lunga lista di tutto ciò che non è più à la page  perché è “palloso” oppure è una “paraculata”. E spesso i suoi giudizi sono anche esatti, almeno quanto lo è due volte al giorno l’ora indicata da un orologio rotto.

Ma, la cosa sorprendente è che il curator (titolo della sua autobiografia) parli di tutto ciò come se durante gli ultimi vent’anni lui stesso fosse stato in ritiro spirituale a Camaldoli e non nel centro di New York intento ad ordire megamostre di paraculate e opere pallosissime. Certo, quello di non cambiare mai idea è il privilegio degli idioti (io non ho mai cambiato idea su questo punto), ma un mea culpa, anche timidissimo ed espresso con estrema cautela, forse sarebbe stato opportuno.

Eppure Bonami nemmeno lo ipotizza. Anzi, dopo avere decretato che quella di Jeff Koons (nella foto) è l’unica grande opera che resterà tale oltre questo cafarnao (stento a credere che ne sia sinceramente convinto quando anche i bambini sanno che si tratta di un bidone colossale e oso sospettare che lo dica solo per far incazzare il suo compagno di zingarate Maurizio Cattelan), si spinge a tracciare (o meglio a schizzare in virtù dei sui trascorsi di pittore) la strada che l’arte dovrà seguire in futuro, tornando a raccontare storie che interessino tutti. Un new deal creativo per un’arte accessibile, i cui connotati, per altro piuttosto vaghi nelle parole dell’autore, lasciano forse presagire una neo-post-transavanguardia (???). Chiedergli il come e il perché sarebbe come chiedere a Donatella Versace per quale motivo la nuova collezione è verde pisello. Risponderebbe che è così perché il rosa ciclamino è morto.

Una volta ultimata la lettura del libro, la sensazione di vuoto è stata tale che ho desiderato ricevere un risarcimento. E non potendolo chiedere all’autore, mi sono rivolto al libraio, il quale con inattesa nobiltà d’animo mi ha permesso di prendere due volumi usati in cambio di quello nuovo. È così che sugli scaffali ho trovato “Discorso sull’orrore dell’arte” di Enrico Baj e Paul Virilio e “Arte e progresso” di Ernst Gombrich. (E, forse, dovrei onestamente anticipare che il risarcimento è diventato cospicuo soprattutto grazie allo scritto di Gombrich. Un saggio del 1971 che per un attimo sono stato tentato di dichiarare come “rilettura”, prima che un sussulto di sincerità avesse la meglio sulla vergogna di non averlo studiato in gioventù).

L’intervista di Baj a Virilio, pubblicata nel 2002, è un grido d’indignazione emesso a due voci contro la radicale mutazione del concetto di arte che ha segnato la fine del secolo scorso, degradando le modalità di produzione e diffusione delle opere fino a renderle insulsi oggetti di consumo confusi nel sistema globale di circolazione delle merci. Un accento particolare è messo sullo sviluppo tecnologico dei media espressivi e sull’influenza che l’immagine pubblicitaria ha esercitato nel creare un’estetica “otticamente corretta”, vuota di sostanza ma soddisfacente per i più, quindi totalizzante e totalitaria. Un cocktail perfetto di cui il mercato finanziario si è rapidamente impadronito per ubriacare folle di turisti (parco buoi) e speculatori (operatori professionali).

Una sterminata proliferazione di oggetti molto poveri di senso ma dall’aspetto facilmente riconoscibile. Scatole vuote (tranne quando piene di merda) con etichette vistose. Prodotti di scarso valore e di grande prezzo, perlopiù concepiti per soddisfare le esigenze dello spettacolo, ovviamente di maggior efficacia se scintillanti, giganteschi e passabilmente spiritosi. Comunque destinati al solo consumo e di conseguenza effimeri, iscritti nella dimensione temporale di un presente diviso in maniera paradossale tra la fame di novità e il desiderio di conformità. Un complesso di cose che ha man mano trasformato l’ideale di modernità in ideologia della moda. Lusso irrinunciabile per le signore facoltose che affollano le sfilate, svago a buon mercato, ma non meno appetibile, per le altre che, dal parrucchiere, ingannano l’attesa sfogliando le riviste patinate. In entrambi i casi, accessorio votato all’oblio in cui sempre cade ciò che, essendo stato en vogue un giorno, sarà necessariamente obsoleto il giorno dopo.

Le analisi di Virilio sono sapienti e profonde, le osservazioni di Baj accorate e pertinenti. Il libro merita senza dubbio una lettura attenta, ma è pervaso da un tono catastrofista venato di preoccupazioni ecologiste, nostalgie situazioniste e reliquie paleocristiane, che lo rendono seducente quanto un verbale d’assemblea del Kominform. Certo, un’assemblea che si tiene in Boulevard Montparnasse ( alla Coupole, come precisa Baj nell’introduzione), ma pur sempre lieve come solo sa essere il pensiero militante di provenienza transalpina, con quel suo tipico linguaggio perennemente in bilico tra la filosofia teoretica e il volantino sindacale. (Strumento privilegiato per un intellettuale di provincia - cioè io - che provoca gli amici borghesi durante le cene del sabato sera con citazioni d’importazione. Probabilmente indigesto a tutti gli altri).

Con tutt’altra eleganza di pensiero e di parola, il saggio di Gombrich è un esempio luminoso del modo in cui la storia dell’arte possa capire ed esprimere il senso di un’epoca ben oltre i suoi connotati puramente estetici. “Arte e progresso” è una riflessione lucidissima, nutrita da una conoscenza tanto vasta quanto dettagliata, sul rapporto tra teoria e creazione artistica in relazione all’idea di progresso, dall’ antichità alla fine del XIX secolo. Un excursus appassionante e altamente istruttivo che rivela le origini della confusione prossima all’ebbrezza nella quale barcollano arte e critica dei giorni nostri. Dall’illusione dell’onnipotenza scientifica alla speranza di un indefinito sviluppo, dalla concezione dell’arte come manifesto ideologico alla ricercà della modernità quale finalità abusivamente imposta a ogni gesto creativo.

“L’avventato culto di ogni novità non potrà mai sostituirsi ai valori umani sui quali l’arte deve fondarsi”.  È questa la frase conclusiva di questo bellissimo libro nel quale si possono trovare molte indicazioni per porre rimedio ai sintomi della sbornia, siano essi nausea, malessere generale, apatia e euforia, stanchezza estrema, confusione mentale, agitazione o disturbi del linguaggio. La lettura ne è vivamente consigliata a tutti coloro che abbiano fatto un consumo eccessivo di arte contemporanea. Incluso Francesco Bonami. Anche se per lui, ovviamente, si tratterà di una “rilettura”. 

 

 

20-08-2017 | 23:19