La festa della donna in un film

Nove giorni prima che scoppiasse il conflitto con Israele, nel luglio 2006, terminavano a Beirut le riprese del film “Caramel”, diretto e interpretato dalla splendida Nadine Labaki.

Un “film femmina”, nel senso più diretto e morbido del termine, che raccontiamo nel nostro personalissimo 8 marzo 2016, quando più che mai conoscere l’animo di un Paese come il Libano al di fuori delle notizie dei telegiornali è utile e, perché no, necessario (oltre che bello).

“Caramel” è un film che non fa mai riferimenti diretti alle condizioni politiche del Paese, mentre ha il grande pregio, attraverso le storie di queste cinque donne, raccontate da una donna, di farci assaporare la quotidianità di un Libano immerso nelle più aspre contraddizioni, sospeso fra tradizione e progresso, emancipazione e pregiudizi, ma con un fortissimo senso della famiglia, comunque la si intenda.

La famiglia di queste donne ha la sua culla in un salone di bellezza, dal malconcio nome francese e dalle atmosfere squisitamente libanesi, fino al midollo. Da subito si è accarezzati dai colori, da odori talmente intensi che li senti anche attraverso uno schermo piattissimo, da occhi vellutati come solo alcuni occhi mediorientali possono essere, da una musica splendida (di Khaled Mouznar) che accompagna tutte le scene e che passa dalle viscere prima che dalle orecchie, dando un senso di magica sazietà dei sensi che quasi assomiglia a quella dello stomaco per quanto intensa giunge.

Layale, Nisrine, Rima, Jamale e Rose: la prima alle prese con un amore proibito, la seconda con un matrimonio che parte su una bugia, la terza attratta dalle donne senza poterlo dire, la quarta schiacciata dal passare del tempo, la quinta murata viva dal senso del dovere.

Potrebbero essere le storie di quattro delle nostre mamme, o forse anche di qualcuna di noi, in quell’Italia che ancora borbotta maligna sotto i diritti recentemente assimilati.

Quello che certamente è lontano anni luce da noi – purtroppo, oserei dire – è quel senso di sorellanza del mondo delle donne, un mondo misterioso fondato spesso su battaglie di sentimenti e di umori protetti in una sorta di utero gigantesco, che potrebbe accomunarci tutte, madri e insieme figlie in una spirale senza sosta, fortissima e tenera, che permette alla vita di andare avanti, nonostante le delusioni e le violenze di una società ancora troppo poco materna.

Molto toccanti in questo film sono le scene in cui le donne si supportano l’una con l’altra, che si tratti di andare in una clinica a ricostruire una verginità perduta (e che riacquista importanza solo in previsione di nozze musulmane) o che ci si appassioni alla remise en forme della zia Rose, improvvisamente interessata a sistemarsi i capelli perché un uomo speciale l’ha vista, nonostante la polvere di anni di solitudine coatta.

Le donne sono tutte belle in questa storia, dalla più giovane alla più vecchia. Le loro pelli ambrate - che profumerebbero di caramello e zenzero, senza dubbio - i loro capelli così sinceri nonostante l’insistente cura, il trucco senza ipocrisie, diretto allo scopo, o al contrario la faccia pulita ma senza rimpianti.

Sono giovani senza sembrarlo troppo e vecchie con una grazia antica. L’unica che combatte contro il tempo, Jamale, pare infatti una caricatura della soubrette delle nostre parti. Ma alla fine si vuol bene anche a lei, così maldestra nell’inseguire un modello impossibile da afferrare se hai degli occhi e un cuore così.

In questo nostro occidentalissimo 8 marzo sarebbe bello anche pensare a un nuovo, antico modo di essere donne.

Perché sui diritti - quasi tutti - ormai non può metter bocca nessuno, grazie al cielo. Mentre sulla perdita di tutto un misterioso universo femminile, sull’importanza dell’essere femmine senza sentirsi per questo declassate o ghettizzate, anzi, riscoprire quanto possa essere invincibile un’armata di donne che si vogliono bene fra loro e si supportano in quanto forza gentile ma inesorabile… beh, oggi ci sarebbe parecchio da dire.

Per esempio come sarebbe bello e rivoluzionario ribellarsi sul serio al corpo inteso come oggetto pornografico al servizio del consumismo e riscoprirlo come fonte di energia vitale, che non si estrinseca solo con la maternità in senso stretto ma con la cura verso il mondo, in senso assoluto, per il piacere di vedere le cose e le persone “a posto”.

Come sarebbe importante un nuovo femminismo, con più curve e meno spigoli, per ripensare un po’ tutto, tutti insieme, partendo dal naturale potere femminile che per sua natura accoglie e cura, sa e non dice ma, anche senza far troppo rumore, se ben organizzato può cambiare il mondo.

P.s. Si consiglia l’ascolto della colonna sonora di questo film, ad occhi chiusi. In una giornata afosa e con un ventilatore a scompigliarci i capelli, meglio.

Caramel, di Nadine Labaki (Francia/Libano 2007)

 

 

08-03-2016 | 09:15