Jacques che fuggiva dal tempo

Pensi al Belgio e ti vengono in mente i cavoletti di Bruxelles e le carotine surgelate insapori, la birra trappista, il cioccolato. Certo, la burocrazia eurocratica, un’astratta monarchia in salottino demodé, il disastro di Marcinelle. Cos’altro? Bruges coi canali, I fumetti di Tintin, René Magritte, Marguerite Yourcenar. Poi, ma solo se te lo meriti, arriva lui a completare e al contempo disfare, l’album fiammingo di famiglia: il “parigino”, l’esule Jacques Brel. Sentito nominare, si dirà; qualche zio elegante in famiglia? Quei vecchi dischi che volevano gettar via, per fare spazio al maxischermo al palsma, chissà che fine avranno fatto. Gettati in rammarico. Cantore, poeta, talvolta attore, giramondo d’abbandoni, genio purissimo nell’arte dell’apparizione scenica e in quella, ancora più difficile, della sparizione al momento opportuno. Quand’è dimmi, quel tempo ingestibile e sospeso, detto addio? Sempre un attimo prima del previsto. Oppure mai, e così s’invecchia. Ciò da vivo ovviamente, perché da morto, a soli 49 anni, sarebbe stato troppo facile assentarsi. Nemmeno si fosse trattato di auto-illusionismo, per evitare la noia dei bis offerti ai fedelissimi, nostalgici dei primi anni ’60 o il gabbio del cliché esistenzialista, Brel non fu mai dove ci si aspettava che fosse. Ritrosia? Timidezza? Ingenuità? Forse solo spiazzante pudore, utile a disertare il mestiere della celebrità, ottenendo conseguentemente quest’ultima sotto forma d’evasione continua, tra cuori riconoscenti e il rimpianto di molti. Jacques ingannatore della vecchiaia e onirico viaggiatore, a ritroso nella fanciullezza, evocatore di far-west immaginari pur di non dover cedere agli obblighi ripetitivi della vita. La stampa definì tutto ciò, al solito banalmente: I fatidici, mai smentiti, “addii alle scene”. Lettere, piuttosto, da molto lontano.

Diceva: “perché cantare davanti al pubblico è innaturale”, cogliendo bene così l’aspetto fittizio della rappresentazione, forse anche dei convenevoli ipocriti, tra le buone maniere degli spettatori benvestiti in platea. Osservare, a distanza di molti anni, quella mimica priva di artifizi, quell’espressività umida di un nord arcaico, fatto di carbone e umidità - fissata in eleganza bianco e nero - così intensa e satura di emotività, lascia sempre un lieve turbamento, misto ad ammirato incanto. Si è meritevoli di Brel? Mentre lo ascolti, impari il francese senza doverlo studiare. Quell’idioma t’invade e ti corrompe. Così l’impeto, sovente satirico dell’invettiva antiborghese, s’accomoda naturalmente a fianco di romantiche disillusioni, solennemente messe in musica come cavando fuori dalla vita, esistenza di carne e sangue (e merda), l’essenza più pura, il momento magico in cui verità fa rima con libertà. Jacques il belga dal volto umano troppo umano, francese predestinato, nomade per scelta e forse anche un po’ per indole, ma pur sempre straniero ovunque; lontano, lontano – per citare Luigi Tenco - da quelle stanche appartenenze corporative, tipiche del mondo dello spettacolo (e di tutto il resto, della vita che ci gira attorno), etichette che egli, pur senza rifiutare brutalmente, ebbe l’abilità di eludere. Sempre. Consapevole che proprio nel silenzio a fine concerto, dopo gli applausi scroscianti e le ovazioni del pubblico, risiedeva qualcosa di simile all’agio del fanciullo: mentre il parterre bendato contava fino a dieci, per assaporare appieno la fine dell’esibizione, lui era già altrove, come ai bei tempi del gioco a nascondino. E allora ciao.

Ne Me Quitte Pas, Quand on n'a que l'amour, Amsterdam, Les bourgeois. Dici Brel e magari un ventenne d’oggi pensa agli orologi più che al tempo, equivoco da bigiotteria, scoraggiando così con gagliarda ignoranza ogni altra parola inutilmente spesa, scritta qui al solo fine di rendere omaggio alla bellezza. Non ci capiremo mai probabilmente, almeno finché la radio passerà sadicamente Despacito cento volte al giorno. Brassens, Trenet, Aznavour, Ferré, la grande tradizione cantautorale francese, la fonte stilistica dalla quale i vari Tenco, De André, Ciampi, Lauzi, Paoli s’abbeverarono avidamente, pare nella nostra epoca così volgare una snobberia da nostalgici; oppure parodia d’intrattenimento per confidenziali in crociera, baule dimenticato nella soffitta, cassetto dove raccattare sete tarlate, battezzandole senza il dovuto orrore di sé “vintage”. Poi si sa, i francesi… a volte se lo meritano, stereotipi di vini e formaggi, baguette ascellari, le solite stanche cose. Parigi, cartolina seppiata, mi raccomando, baci e finzioni. Eppure Jacques Brel si tira fuori da solo dagli accomodanti ologrammi ad uso posatori; troppo intelligente per scrivere difficile, troppo naturalmente teatrale, per appesantire la propria presenza in scena con la recita recitata. Si può essere sé stessi lassù? Non per molto. Così poco fotogenico, poi, da risultare perfetto senza sforzo. Chi si sforza, non è. Resta una faccia da comico, presto stanco di far commuovere. Tutto quello che avrebbe voluto essere Gianni Morandi, purtroppo per lui ignaro di quanto la malinconia non sia altro che una sfumatura delicata, intoccabile sbriciolio, un equilibrio di fiore l’attimo prima di appassire. Non un badile ad esempio, da brandire per mostrarsi volonteroso bravo ragazzo alle casalinghe, addormentate davanti alla tv la domenica pomeriggio.

“… ma quando un uomo non ha paura, prima di andare a letto con una donna, vuol dire che non la ama. Con la canzone è la stessa cosa”. Che grande verità. Sicché incanto e disincanto, nel commiato messo in conto, l’imbarazzo ben dissimulato nel pronunciare la parola Amore più del dovuto, per finta tutte le sere, a favore di un pubblico sempre diverso e sempre uguale. Prece così patetica in replica, quindi abuso redditizio per future canzonette, spesso male copiate dagli altri; tutto ciò, il già fatto e vissuto, diventa per Brel enigma da evadere, forziere da mettere in stiva, bagaglio d’artista in fuga. Uno che prende e se ne va sul più bello, come veggente dell’inevitabile declino; chi si assenta non paga pegno, questione di mare da sfidare e lontane isole immaginarie da conquistare. Altri mondi altre vite. Sogni a ritroso, tutte le fiabe non ascoltate da piccoli - utopia significa luogo inesistente nello spazio - canterà qualcun altro all’Olympia, domani sera. Eppure c’è un patto di lealtà tra portuali al molo, mentre la pioggia fredda si mescola all’onda in una grigia incognita, dai brumosi mari dal nord partenza verso l’esotica Polinesia, all’orizzonte nuvole di Camus e Saint-Exupéry. Lo straniero e l’esploratore. Un patto che lo farà tornare in tempo a Parigi per morire nel posto giusto, tra gli artisti, chiudendo così quel cerchio, disegnato sempre a discapito della senilità. Restano di Jacques Brel le meravigliose canzoni, simili a conchiglie al ritorno dalle vacanze, così importanti quando colte in quel luogo lontano, così vane e destinate all’oblio al ritorno a casa. Più che cantare la vita in una recita di ricordi, egli visse tutto intensamente, senza mai farsi trovare dal tempo. 

 

 

18-11-2017 | 14:59