Indimenticabili, meravigliosi quadri

P come pittura.

Paternità – Nella lingua degli storici dell’arte la parola indica la provenienza di un’opera dalla mano di un determinato artista. Quando è ancora incerta, essi attribuiscono a questo o a quello la paternità di un dipinto o di una scultura. Ma che succede se l’opera è stata creata da una donna? Ad esempio, si può dire che la paternità di una tela spetti alla figlia, Artemisia, e non al padre, Orazio Gentileschi? Oppure che la paternità di un marmo sia di Camille Claudel piuttosto che del suo amante, Auguste Rodin?

In effetti, il linguaggio tecnico vuole che si parli di maternità solo quando il soggetto rappresentato è una mamma con il bambino e non certo quando l’autore dell’opera è di sesso femminile. Così abbiamo musei pieni di maternità di Raffaello, Dürer o Renoir che, come tutti sanno, erano uomini. Pittori cui spetta la paternità di svariate maternità.

Forse è per questo motivo che le scene di paternità sono rarissime, e ancora più rare quelle partorite da artiste alle quali ne sia stata attribuita la maternità.

Pennello - È probabile che il problema risieda proprio nei ferri del mestiere. Il pennello e lo scalpello. Oggetti dalla forte valenza metaforica nel campo linguistico della sessualità. Vale forse la pena di spiegare cosa il lessico triviale intenda dire con l’espressione “intingere il pennello”? O ancora “dritto come uno scalpello”?

Il fatto è che pittura e scultura si fanno con attrezzi la cui forma evoca nella coscienza collettiva immagini legate all’erotismo maschile. Tutti ricordano le foto di Pollock mentre schizza sulla tela grandi quantità di colore servendosi di un grosso pennello, foto che sono diventate nel tempo le icone più significative di  un’immaginaria falloforia pittorica.

E, sotto l’influsso di questa confusione semantica, alcuni celebri artisti, come Georg Baselitz o Gerhard Richter, si sono perfino spinti a teorizzare una necessaria ed esclusiva mascolinità della pittura, sostenendo che le donne non sanno dipingere proprio a causa della mancanza di certi attributi. Sarebbe stato divertente vederli sostenere un dibattito sul tema con Giorgia O’Keeffe, Frida Kahlo o Louise Bourgeois. È quasi sicuro che si sarebbero fatti trattare a male parole, scelte in un vocabolario anche più scurrile di quello proprio alla loro tronfia virilità di Nibelunghi.

Pittura - Plinio il Vecchio scrive nella sua Naturalis Historia: “…il vasaio Butade Sicionio scoprì per primo l’arte di modellare i ritratti in argilla; ciò avveniva a Corinto ed egli dovette la sua invenzione a sua figlia, innamorata di un giovane. Poiché quest’ultimo doveva partire per l’estero, essa tratteggiò con un pennello l’ombra del suo volto proiettata sul muro dal lume di una lanterna; su quelle linee il padre impresse l’argilla riproducendone il volto; fattolo seccare con il resto del suo vasellame lo mise a cuocere in forno”.

Il testo di Plinio fa riferimento a un mito, tramandato a partire da Erodoto, che narra la nascita simultanea di pittura e scultura. Entrambe traggono origine dall’ombra e dal disegno che ne traccia i contorni, ma il mito ci spingerebbe a pensare la pittura come un’arte femminile, motivata dalla necessità sentimentale di colmare un’assenza attraverso la creazione di un’immagine sostitutiva, tutta mentale e incorporea. Mentre la scultura sarebbe piuttosto il fatto di un uomo che a quell’immagine dà concretezza e volume, materializzandola in una realtà fisica.

Oscurità e luce, orrore del vuoto e invenzione della forma, mente e corpo, opera complementare di femminilità e virilità, maternità e paternità. Le arti plastiche sembrano nascere, nell’innocenza mitologica, proprio come il doppio umano della creazione divina e, platonicamente, come la congiunzione degli opposti. Il pensiero triviale non era ancora intervenuto con la sua brutalità dialettica e le sue convulsioni lessicali.

Alighiero Boetti, che alla voce “professione” sulla carta d’identità volle sempre la dicitura “pittore”, forse pensava proprio a questo quando decise che le due parti di cui era composta la sua opera, non casualmente intitolata “Mettere al mondo il mondo”, fossero realizzate una da una donna e l’altra da un uomo.

 

 

Q come quadro.

Quadreria – Un tempo era più facile esporre una collezione di opere d’arte. Si appendevano i dipinti alle pareti, uno di fianco all’altro, e si piazzavano le statue negli angoli o nel centro dei saloni. Certo, ieri come oggi, la difficoltà consisteva nel disporre ogni opera in modo che fosse ben visibile, ma, una volta fatto ciò, si poteva contare sull’attenzione e, forse, anche l’ammirazione degli spettatori. Si vedano a questo proposito le tele di Van Haecht, di Frans Franken, di Chodowiecki e pure di Daumier: è la pittura stessa che fornisce testimonianze dirette sulle quadrerie del passato. I pochi amatori osservavano quello che c’era all’interno del perimetro tracciato dalla cornice ed il modo in cui era stato dipinto. Nulla più, ma nulla meno.  

Poi è arrivato il ‘900, portando con sé una serie infinita di complicazioni. Gli artisti hanno cominciato a chiedersi se il quadro fosse proprio il luogo più adatto a ospitare le loro visioni e l’arte si è messa a parlare di se stessa. Schwitters ha destrutturato quel rettangolo ormai troppo convenzionale, Fontana ha provato a sfondarlo per sondare l’infinità dello spazio retrostante, Castellani ha ipotizzato che tra tela e telaio ci fosse un universo, LeWitt l’ha abolito e ha ridotto la pittura ad un progetto da realizzare eventualmente sul muro, Wiener ha sostituito anche la pittura e al suo posto, sul muro, ha scritto delle parole. In parallelo, la scultura abbandonava progressivamente l’arte statuaria fino a diventare installazione e inglobare lo spazio circostante nel proprio volume. Così gli spettatori, divenuti ormai moltitudine, non si sono più avvicinati ad un’opera come ci si affaccia ad una finestra aperta sul mondo, ma piuttosto hanno cominciato a guardarla come un monolite che esprime solo la propria forma. Vale a dire un rompicapo per esperti del settore o un totem muto, a seconda dei casi.

Quadri – Le grandi gallerie si sono adeguate alla natura delle opere esposte e abbiamo assistito alla nascita di musei dalle immense sale bianche e cubiche, metà astronavi (all’esterno)  e metà ospedali (all’interno). Destinati ad ospitare milioni di visitatori che abitualmente fanno la coda in ciabatte e pantaloncini (quasi in pigiama) come nei corridoi di un reparto di radiologia, in attesa di ammirare opere affascinanti ed espressive quanto un macchinario per la risonanza magnetica. Un po’ come se l’arte contemporanea fosse una malattia alla quale rassegnarsi perché inevitabilmente iscritta nel destino di ognuno di noi.

Che nostalgia! Nostalgia del tempo che fu e che non abbiamo vissuto. Un tempo in cui l’arte parlava della vita, di amore e di morte, del divino e del profano, del corpo e dell’anima. Non era una meta turistica né un obbligo sociale e parlava agli occhi, richiamando lo sguardo a concentrarsi all’interno di una cornice o su una statua. Perché proprio della concentrazione di un individuo in un’esperienza spirituale si trattava, non di distrazione di massa nella pratica del consumo culturale. Le collezioni erano esposte in saloni lussuosi, rischiarati dalla luce del giorno, non in scialbi hangar, illuminati come frigoriferi di un obitorio dalle lampade ingannevoli dei proiettori.

Nostalgia di quel tempo lungo della storia e della mente in cui furono dipinti quadri come Las Meninas da Velȧzquez, Il funerale della sardina da Goya, Il fantasma di una pulce da Blake, Olympia da Manet, L’apparizione da Moreau, Icarus da Redon, L’urlo da Munch, L’ingresso di Cristo a Bruxelles da Ensor, Il compleanno da Chagall, Prager Strasse da Dix o L’eclissi di sole da Grosz. 

Quadri. Indimenticabili, meravigliosi quadri.

 

- continua - 

 

 

22-05-2016 | 22:52