Il senso del vuoto per Beckett

Molto è stato scritto sul tema del vuoto in Samuel Beckett. Il vuoto in senso fisico e matematico, il vuoto in senso esistenziale, il vuoto nel senso di mancanza di ispirazione o immaginazione, di strumenti comunicativi ed espressivi, il vuoto dei sentimenti, il vuoto dell’attesa e quello della morte. Ma il vuoto in Beckett è anche un vuoto caratterizzato da una specifica fisicità e spazialità, un vuoto che sembra potersi riempire, per poi svuotarsi e riempirsi di nuovo in un continuo dinamismo senza speranza o, ancora meglio, con la speranza (tutta leopardiana) di avere speranza. Una sorta di stabimobilism, come nella definizione del suo maestro Joyce in Finnegans Wake: un moto centripeto e insieme centrifugo che, nella sua frenesia rutilante, si cristallizza nella più inalterata staticità. I movimenti nel (e del) vuoto beckettiano avvengono per lo più in attimi velocissimi e fugaci ma anche, simultaneamente, immobili e durevoli, secondo quella “coincidenza degli opposti” che sia Beckett sia Joyce hanno recepito da Giordano Bruno:  “Ci danno la vita a cavallo di una tomba. Il giorno splende in un istante; ed è subito notte […] Partoriscono a cavallo di una tomba, il giorno splende un istante, ed è subito notte”, Aspettando Godot).

Alla luce di questi temi e soprattutto delle svariate tecniche e dei codici utilizzati dall’autore irlandese (linguistico-narrativo; drammatico; televisivo e cinematografico), è interessante notare come l’impatto della sua ricezione abbia ispirato, anche in Italia, svariate opere letterarie e artistiche. E non si tratta soltanto delle innumerevoli rappresentazioni teatrali ancora oggi presenti in molti cartelloni, ma anche dei numerosi processi di transcodificazione e dunque di “riscrittura” attraverso altri codicio semplicemente di libera ispirazione – che hanno avuto esiti degni di notain ambito artistico-visuale.  Grazie al particolarissimo elemento di visualità (o la sua assenza volontaria) nell’opera narrativa, e grazie alla (non)spazialità nel teatro, nel cinema e nei teleplays, l’opera di Beckett ha esercitato una notevole influenza anche su artisti contemporanei italiani. Tra questi possiamo ricordare Diego Perrone, un artista che si è guadagnato un ruolo apprezzabile nella scena artistica internazionale, esponendo, tra gli altri, al Guggenheim Museum di New York,il Centre Pompidou di Parigi, la Whitechapel Gallery di Londra.

Per la mostra “In su, nell'azzurro, come una piuma – Cinque artisti incrociano i cento anni di Samuel Beckett”, allestita presso la Scuola Holden di Torino (2006), Perrone ha realizzato l’istallazione fotografica  “I pensatori di buchi”. Attraverso il codice visivo della fotografia, l’opera riscrive molti dei temi nodali dell’opera dell’autore irlandese. L’arte di Perrone si interroga, infatti,  sul concetto di attesa e di “processo” artistico: prima di realizzare le foto (raffiguranti uomini in prossimità di un grosso buco nella terra), l’artista ha fisicamente scavato crateri per molto tempo, attuando quello che a prima vista potrebbe essere recepito come un atto “assurdo”. Scavare è invece l’atto fisico che dà concretezza al vuoto, ossia a ciò che non possiede concretezza:  “Quando mi sono occupato di vuoto [“I pensatori di buchi”] l’ho fatto in maniera molto fisica, scavando per un anno nella terra. Crearmi un limite è servito per cancellare alla vista il paesaggio e immaginare un luogo più vasto”. Gli stessi concetti di limite e di cancellazione del dato reale a favore dell’immaginazione sono sviluppati in quasi tutte le opere di Beckett, a partire  dal saggio giovanile Proust, in cui, insieme alla poetica dell’autore francese, Beckett affronta le stesse tematiche nell’opera di Giacomo Leopardi. L’immaginazione – o lo sforzo spasmodico di immaginare quando l’immaginazione viene meno (“imagination dead immagine”) – è un tema privilegiato anche per Perrone: “Mi riferivo, credo, al fascino di antiche teorie, ad esempio riguardo al cosmo, completamente distorte, dovute alla mancanza di conoscenza. Per esempio, pensare che la terra sia piatta o che sia come una cipolla ha più a che fare con l’idea di rappresentazione e quindi come attitudine vicina alla fantascienza. Un mondo immaginato che deriva da uno conosciuto. Uno non esclude l'altro se l'immaginazione la intendiamo come una forma di conoscenza e non come una fuga dalla realtà»

L’estetica di Beckett pare tuttavia rintracciabile anche in altre opere di Perrone in cui l’influenza non è esplicita o dichiarata, e specialmente in quelle opere in cui troviamo l’immagine simbolica e ricorrente dell’orecchio. “Senza titolo” (1995), ad esempio, è una scultura composta da due lobi auricolari intagliati in un corno, e “Due orecchie e un angolo” (2005) è composta da due sculture raffiguranti due orecchie dalla forma irreale e angolare che suggerisce l’arbitrarietà e l’individualità delle percezioni uditive. Molte opere di Perrone sono, infatti, specificamente incentrate sull’esperienza uditiva e sulla sua funzione di “conoscenza”: l’elemento sonoro è riprodotto attraverso una molteplicità di codici (informatici, elettronici, acustici) e viene fatto rimbalzare da opera a opera al fine di riempire e di “misurare” lo spazio “vuoto”. Il tema del suono, reso attraverso vari strumenti e codificato dal cervello attraverso l’interfaccia dell’orecchio, è un tema di estrema rilevanza anche nell’opera di Beckett, così come il suo rapporto con quelle scienze –  fisiche, geometriche e matematiche – che sono alla base di tali misurazioni o della loro impossibilità.

Nella foto: Diego Perrone, “I Pensatori di buchi” (dettaglio dell’istallazione fotografica), 2002.

 

 

07-08-2014 | 01:36