Il sangue di san Jodorowsky

A vederlo adesso, il vecchio e canuto Alejandro Jodorowsky, cala una certa malinconia. 88 anni, doppio cifrario infinito, bluff d’immortalità, numerologia benaugurale. Dispensatore di saggezza in pillole pop, caramelle amarognole per rubrica di cuori infranti, santone postmoderno con argentea barba curata e gatto da coccolare, affabulatore psicomagico per questuanti new agers, pare aver comunque trovato una collocazione, addirittura nel conformismo caprino della nostra epoca. Lungimiranza e mimetismo astuto, trucchi, complice l’antico sodalizio con Marcel Marceau, giacché l’epoca liquida così agognata a vanvera, pare somigliare più a quella dello sciacquone “là bas”, piuttosto che a cristalline evanescenze nelle quali perdersi per ritrovarsi.

Motteggi karmici, paradossi a uso esistenziale, divulgazione essoterica riguardo al grande potenziale magico dell’Io, davvero così poco esplorato. Chiediamo, da novizi: perché saperne di più, titillando le intime faccende mentali, naturalmente pigre? Forse per poter accendere una lampadina con la sola forza del pensiero? Maestri di vita vanitosi nella finta modestia, da Terzani indietro fino a Osho (Sai Baba non pervenuto, peccato), poi finiti sugli scaffali del supermercato, accanto a Bruno Vespa, in saggistica all’etto. Dal “pensa positivo” al luogo comune è tutto un attimo. Ma Jodorowsky resta un caso a parte. Qabalah per casalinghe post-buddiste e tarocchi svelati agli sconosciuti, erratico trovar casa ovunque, apolidia come da ascendenza ebraica, gusto d’arabescare in ossimori. Eppure, c’è sempre un oppure. Eclettismo mistico, lo chiameremo così. Elemento stilistico ondivago, sincretico, esteticamente più barocco del barocco, rococò emorragico messo in flebo per dubitosi, prostrazione dinnanzi al rituale simulato del sacrificio. Fumetto del tragico, parodia eucaristica. Con una piroetta circense, si potrebbe definire fede del mistero, eccessivo come una processione di flagellanti il Venerdì Santo. La “liquidità” di Jodorowsky ambisce (vanamente) a quella dell’estasi di Santa Teresa di Bernini, ovvero sembra predisposta ad andare oltre la materia grezza artigianalmente lavorata, oltre la comunicazione ed i significati, per abbandonarsi ad una posa umanamente inconcepibile. Eccedere quindi: la si ammira, ma sempre con quel certo turbamento, sovente scandalizzandone. Santità e oscenità.

Come nel caso del lungometraggio Santa Sangre – Sangue Santo, del 1989, qui certamente d’uopo, ben più delle altre due storiche pellicole, ovvero El topo e La montagna sacra. Siamo nei pressi di Nostra Signora dei Turchi e di Salomè, del geniale Carmelo Bene. Medesime destrutturazioni riguardo alla trama, stesso approccio parossistico, affinità nel saper giocare saturando al massimo i colori, ispecie col rosso: drappo teatrale, muleta, rose rubee, sangue cinema, tramonto scarlatto, sipario calato sul comunismo. Pellegrinaggio verso un’idea decoratissima di Sud. Davvero poco importa dell’esile canovaccio, strampalata vicenda di saltimbanchi, con abuso di stereotipi da tendone. Coltelli e tatuaggi, mimi e trapezisti, animali esotici, funerali d’alta pasticceria; poi puttane e balocchi, siparietti trash, ceri votivi, musica messicana. Fellini portato alle estreme conseguenze, Pasolini a Salò, Bunuel all’ospizio: l’onirico si tramuta in voluto cattivo gusto, rituale kitsch, come pregare al contrario. Come bestemmiare, in un ribaltamento spirituale, però stimando Dio ancora degno d’attenzione. Così, in Santa Sangre, il Mediterraneo cattolico incontra il Sudamerica animista, con pacchianeria a stelle e strisce sullo sfondo, ricongiungendo le parentele in virgineo melodramma blasfemo. Impossibile l’ateismo senza Dio, tant’è che Jodorowsky s’incaponisce nel fare manierismo di opposti, sacrificando senza noie il lume della ragione. Un codice luciferino e oltranzista, a maggior ragione se raffrontato con la sterilità dei minimalismi espressivi contemporanei; un superamento del limite (di lettura borghese), in grado comunque di alimentare tensione trascendente, pure nel delirio granguignolesco. Il culto della madonna senza braccia, sgargiante simulacro posticcio, in un caleidoscopio di espedienti surreali, pare funzionale ad esasperare il clima del film, per portarlo alla saldatura dell’uroboro, il girotondo del tempo, qui forse scovato con abuso di peyote. Capolavoro irregolare o b-movie per feticisti dell’orrido? Labilità di significati e ridondanza di frammenti iconici, enfatizzati fino al nonsense. Forse non è del tutto vero che al peggio non vi sia mai fine, probabile infatti che, seguitando volontariamente a scavare nell’infimo, si sbuchi fuori dall’altra parte. "Mehr Licht".

 

 

02-03-2017 | 18:21