Il ritratto secondo Jean-Luc Nancy

Marco Vallora: Il titolo della mostra qui al Mart di Rovereto è “L’altro ritratto”, però, appunto, pronunciando così, velocemente, in italiano, c’è il rischio che tu possa capire, invece, il più prevedibile: “l’Auto-ritratto”. Ma questo gioco di parole, curiosamente, esiste soprattutto in italiano, non in francese… Comunque, se partiamo dal titolo, possiamo osservare che il gioco, o meglio, ciò che è in gioco, non è l’abituale auto-ritratto, ma “l’altro ritratto”.

Jean-Luc Nancy: Sì, assolutamente, ma l’altro ritratto nei due sensi, anche se effettivamente, in francese, c’è un unico significato. L’altro ritratto, ossia l’altro. Qualcosa d’altro rispetto al ritratto in un senso tradizionale, cioè nel senso della rappresentazione. Quindi altro anche nel senso del riconoscimento del volto dell’altro, qualcuno che per definizione è un altro, anche quando si tratta di un autoritratto. Allora l’altro-ritratto in prima istanza vuol significare che cosa è diventato il ritratto oggi, quando sappiamo che ormai, in fondo, né la pittura, ma nemmeno la stessa fotografia, praticano più il ‘ritratto’ nella prospettiva tradizionale dell’immediata riconoscibilità, o dell'identificazione diretta del soggetto. No, è probabile che in questo processo, la fotografia abbia avuto un ruolo assai importante, perché la fotografia permette un’identificazione così perfetta, precisa, meccanica della persona, magari anche solo in apparenza, che l’idea della riconoscibilità, con il ritratto pittorico, ormai non è più così rilevante. In tanto bisogna ricordare che nella pittura classica, il ritratto di rapida identificazione, non è mai stato considerato un grande genere di pittura, alto. Anche Tiziano confidava un giorno a un amico che avrebbe dovuto fare dei ritratti di una famiglia principesca, perché veniva retribuito bene, ma era ben consapevole che questo, lo scrive, non andava bene, che non si trattava di vera pittura.

MV: Cioè non altrettanto degna della pittura di soggetto storico, aulico, o allegorico…

JLN: Ecco, appunto, esisteva una gerarchia…

MV: Una gerarchia dettata dall’accademia…

JLN: Appunto, e quindi il ritratto, l’idea del ritratto come identificazione o rappresentazione di una identificazione riconoscibile, il meccanismo della somiglianza, non è una vera idea di arte. Quindi si può già sostenere che “l’altro ritratto”, rispetto al ritratto, diciamo così bassamente rappresentativo, vuole in fondo semplicemente significare un’altra verità del ritratto. Così adesso l’interesse diventa capire, verificare cosa succede nell’arte contemporanea del ritratto, dal momento che abbiamo dei ritratti al limite dell’inesistenza, dell’indistinguibile, ove la figura e la somiglianza si ritraggono, spariscono nell’ombra. Ecco per esempio questo “auto-ritratto” di Claudio Parmigiani, dove rimane soltanto il suo profilo sfuggente, che è poi nient’altro che un’ombra. Oppure questo ritratto di Bacon che è già tutto scuro, nero e che è già, credo, della fine degli anni ’40. D’altronde in italiano “l’altro-ritratto” può essere inteso anche come l’altro che si ritira. ‘Ritirato’,‘ritratto’, intendendo la parola ‘ritratto’ nel senso appunto di ritirarsi, sì, ma anche come ritirare i soldi dalla banca, o al bancomat. Una ‘presa’, un ritiro. Questa cosa qui non si può dire in francese, perché la sfumatura linguistica non c’è e ritratto si dice ‘portrait’. Ritratto e ritiro, per noi, sono parole diverse. Anche se, ma soltanto in alcune regioni di Francia, in passato ci fu il verbo “retraire”, per dire assomigliare. Ma ormai è completamente dimenticato.

MV: Molto interessante l’idea, e si può dire etimologicamente geniale, e nuova, questa, del ritratto nel senso di ‘ritirarsi’, ritrarsi. Qualcosa che è del soggetto, soggetto appunto al ritratto, che non se la sente di concedersi fino in fondo. Che resiste a questo abbandonarsi agli sguardi del pittore che dipinge, una tesi assai originale…

JLN: Certo, ma credo appunto che sia proprio questo il ‘vero’ ritratto, cioè non banalmente identificativo, che è stato praticato anche in passato. Anche per esempio la polizia reale francese, all’epoca di Luigi XIV, aveva dei pittori artigiani, che facevano velocemente dei piccoli ritratti-identikit delle persone ricercate dalla polizia. Soltanto che non erano e non si sentivano artisti. Quindi nell’idea del ritratto, ossia nell’idea del viso o della figura umana che si concede, c’è appunto sempre una tensione, che ci conduce verso qualcosa che si ritira, che si protegge. Cioè che si sottrae, se così vogliamo dire: qualcosa che ha a che fare con l’identità, la persona, il soggetto, il senso, la sua essenza.

MV: Quel qualcosa che in una certa sfera di cultura o di pensiero filosofico si chiamerebbe l’anima?

JLN: Sì, sì, certamente, l’anima. E che quindi passa sempre attraverso lo sguardo del ritratto. Quindi io ho pensato che l’apparizione dell’idea di ritratto, nella cultura occidentale, fosse simultanea, sincronica all’apparizione dell’arte occidentale, cioè greca. E che corrisponde alla sparizione delle rappresentazioni mitiche degli Dei, intesi come esseri fantastici, spesso con teste animalesche. Ed è proprio lì, da quella sparizione, che appare la nuova figura umana. In realtà prima, se ci pensiamo, ci sono ben poche figure umane. Quando per esempio si riflette sul fatto che non esiste nessuna figura umana nell’arte delle grotte preistoriche, qualcosa significa. Ci sono profili vaghi di uomini, ma invece ci sono figure ben delineate di animali, ed anche con degli sguardi, che a noi paiono umani. Lei potrà vedere nel libro che sta uscendo per Galilée, che nel mio testo, ed anche in catalogo, ho messo un’immagine di leoni, dalla grotta Chauvet, che hanno degli occhi molto vivi e ben visibili, e che però non sono figure umane. Credo che si possa dire che la nascita del ritratto corrisponde al passaggio dal divino, dall’animale o persino dal vegetale, all’essere umano, e questo rende l’uomo del tutto un mistero. E allo stesso modo si può dire che il Dio incarnato, cioè il Cristo, è come il risultato di qualche cosa che era già lì, e cioè il Cristo, che per un certo verso risulta l’erede di Apollo, o persino di Afrodite… Ma ora siamo nell’epoca del dopo-la-morte-di-Dio, e la morte di Dio significa in fondo la fine della possibilità di rappresentare un ideale. È ben noto il fatto che nel ritratto classico si ritrova molto spesso una idealizzazione del modello. E i modelli non idealizzati, come per esempio quelli dei ritratti di Goya… il fatto cioè di rappresentare dei visi di personaggi regali, con la loro specifica bruttezza, è già un sintomo di modernità. È già l’inizio di qualche cosa che successivamente corrisponderà, profondamente, alla grande crisi della rappresentazione nell’arte. Dico, non solo nel ritratto, ma proprio nell’arte in generale. La crisi della figura. Quando si è arrivati storicamente all’astrattismo, credo ci fossero numerosi motivi per passare all’astrazione, cioè c’era sicuramente anche il desiderio di trattare la materia in modo puro, soltanto in sé. Ma penso che in fondo ci fosse inoltre un’autentica rinuncia alla rappresentazione, che non si poteva più vivere come facendo sempre riferimento a una verità oggettiva, a un referente. Eppure ciò nonostante il ritratto è tornato, malgrado, si potrebbe dire, la distruzione completa del ritratto e della figura operata da Picasso e bon – chi mai ha detto che Picasso “mi ha insegnato ad odiare la figura umana”? – eppure la figura umana, comunque, resiste. Non sono l’unico ad aver suggerito questa osservazione, sono varie le rilevanze a questo proposito, e soprattutto c’è, nel ritratto dipinto, una specie di resistenza, di insistenza del viso umano, che interroga chi sta a guardarlo: ma che cosa si sta facendo di me? Chi mai sono io?

MV: C’è dunque una sorta di re-emersione del viso, nei ritratti di oggi, cioè di un volto che si ricorda di essere stato cancellato? Ad esempio, il velo strappato di Bacon, non sarà il ricordo di qualche cosa che è stato e non c’è più, e che ritorna sul palcoscenico del mondo del ritratto, in modo programmatico, drammatico? Oppure no, tutt’altro?

JLN: Sì, credo che se si cancella completamente il viso, allora, dove è che mai andremo a cercare l’umano? Non tanto l’uomo singolo, ma probabilmente in senso più vasto. Se si cancella il viso umano si cancella l’Uomo. Che è poi l’espressione celebre di Foucault, e cioè che la figura dell’uomo si cancellerà, come una sagoma disegnata sulla sabbia in riva al mare. Può anche restare vera quest’ipotesi, ma allora il viso diventa molto probabilmente qualcosa d’‘altro’, che non il solito, semplice viso umano. E pur senza tornare a essere un volto di Dio-animale. Non so, nella mostra ci sono sia dei visi, che sono semplicemente umani, ma ci sono anche dei volti umani sfigurati, deformati, in trasformazione, che diventano maschere ghignanti, inquietanti. Ad esempio ci sono vari auto-ritratti di Francesca Woodman, in cui deforma se stessa o anche che si ritrae del tutto nuda, ma con una maschera sul volto. Visi che si deformano, che si tramutano, ma che sempre si interrogano, che tornano alla stessa domanda. Che cosa è un viso?

 

(Fine prima parte - continua)

 

(Traduzione di Maraia Contardo Bocchia e Marco Vallora)

02-04-2014 | 02:49