I mille volti di Cindy

L’uomo si aggira nel giardino della storia come in un deposito di maschere teatrali, prendendo questa e quella. 

La frase sopracitata di Friedrich Nietzsche ben si adatta al lavoro di Cindy Sherman che ha fatto del trasformismo la colonna portante della sua poetica. Nata nel 1954 nel New Jersey, fin da bambina rimane affascinata dalla televisione, dal cinema e dai rotocalchi, dai quali trae linfa per la sua arte. Questa artista è conosciuta soprattutto per la serie “Untitled”, che va dal 1977 al 1980, e nella quale mette in scena  un caleidoscopio di donne e situazioni, un alfabeto infinito che sempre rincorre la prossima identità da rappresentare. Cindy Sherman gioca con gli stereotipi e i cambiamenti culturali della società, manipola una figura di donna che è multipla e nella maschera – nel mascherarsi – sta la sua cifra stilistica.

L’artista in un’intervista ha riferito che sin da bambina amava maggiormente travestirsi da mostro che da Barbie. Con questa sola frase darebbe la stura al filone dei cosiddetti gender studies che raccontano immagini di donna e di genere, icone femminili mediate dai media. E da uno sguardo che è parziale e che non rappresenta a dovere e pienamente la donna, che è solo patinata e manchevole della quotidianità.

Alcune femministe le hanno rimproverato un mancato deciso impegno e adesione alla causa femminista, e che, anzi, il continuo gioco di metamorfosi con le fonti iconografiche della cultura occidentale non faccia altro che ribadire un modello femminile sbagliato.

Gli studi di genere sono senza dubbio presenti nel bagaglio culturale dell’artista e infatti, in Centerfolds del 1981, ragiona sui modi di rappresentazione della donna nelle riviste porno soft. In uno scatto la vediamo raccontarci una donna spaurita e supina, quasi schiacciata dagli eventi. La performer non considera però il suo lavoro in chiave esclusivamente femminista tale e tanto è il gusto di interpretare il  prossimo personaggio;  il suo è uno sguardo eminentemente ilare e ironico: quasi un Houdini delle identità.

La fotografa ci presenta scatti singoli di persone anonime che ha deciso di impersonare. Tuttavia nel suo percorso si è confrontata anche con modelli noti, incarnando Il Bacco malato di Caravaggio.  L’artista stessa ha affermato di mettere da parte la sua identità per rappresentare quella degli altri in un perpetuo rincorrere di identità in metamorfosi, al pari di quella dello Zelig di Woody Allen.

La performer americana ci mette davanti agli occhi un romanzo picaro e  postmoderno, un road movie tra ritratti  sempre nuovi e sempre diversi.

Ma la sua opera  può anche leggersi  come una grande polemica contro l’artista romantico, che è rappresentato ai suoi massimi vertici da Frenhofer, personaggio del romanzo Le Chef-d’œuvre inconnu di Balzac, tutto impeto, genio e sregolatezza. E per il quale ogni opera prodotta è un parto a cui deve apporre una firma  e un titolo a suggello d’autenticità.

L’artista americana, al contrario, non vuole dare titoli alle opere, affinché queste non prevalgano sulle libere associazioni  dello spettatore.

Continuando a riflettere sulle  sue fotografie possiamo dire che è bene evidente l’identikit dell’artista postmoderno: le sue declinazioni, la sua fenomenologia.

È un’artista che, come dice bene Nicolas Bourriaud, somiglia sempre più ad un deejay che mixa e campiona musica già esistente creandone di “nuova”.  Così accade per le immagini della Sherman, che sono un nuovo prodotto creativo ma già sedimentato su riferimenti esistenti.

Questo mascherarsi continuo può generare in chi guarda un senso  di smarrimento  e vertigine. Ma è l’opera stessa a dirci di non avere paura del mutevole.E lei, Cindy, sembra voler affermare aprendosi a noi: “Sono vasta contengo moltitudini”. E non può che essere così.

 

 

24-11-2014 | 20:17