Gilberto Zorio: l'uomo delle stelle

Quando, al tempo delle scuole elementari, veniva chiesto  ai suoi figli quale fosse la professione del padre, la risposta dei due bambini era sempre la stessa: “Il papà di mestiere fa le stelle”. E Gilberto Zorio non ha mai fatto altro che li spingesse, una volta cresciuti, a trovare qualcosa di più plausibile. Anche di recente, a un ossequioso funzionario dei Beni Culturali che, indeciso sull’appellativo  adeguato per rivolgergli una domanda, azzardava un timido “maestro”, lui, con la gentilezza che gli è consueta, ha replicato: “Oh, no, per favore. Maestro è troppo. Io sono solo dottore in  Scienze Confuse”.

Scorrendo la sua biografia, si può leggere che il ricordo più vivido di un’infanzia felice è quello di essere stato prodigiosamente sollevato dal vento e trasportato in cielo, sopra il muraglione di Termoli, mentre con suo padre guardava le onde del mare, sotto il sole splendente di un terso pomeriggio d’inverno. E, sarà una coincidenza - anche se, come scrive Jung, probabilmente le coincidenze non esistono - ma il suo cognome, così poco comune, rivela una strettissima assonanza con l’ebraico Zohar, che significa splendore, luce abbagliante, ed indica la genesi del creato. Nomina sunt consequentia rerum?

Sta di fatto che la luce, il soffio, l’energia, il caos e la scienza empirica, il cosmo e le forze che lo muovono, le stelle e lo sguardo che le scruta, sono gli elementi che, da quasi cinquant’anni, Zorio manipola e plasma, con un suo personalissimo procedimento alchemico, per realizzare un’opera senza uguali nella storia dell’arte italiana.

Certo, si tratta di uno scultore, perché non ha mai dipinto. Certo, lo si riconduce all’Arte Povera, della quale è uno dei protagonisti. Certo, ha condiviso con le avanguardie del secolo passato le inquietudini grazie alle quali l’arte non è più, solo e sempre, rinchiusa nei quadri. Ma il suo lavoro è inconfondibile e ciò che lo rende tale  risiede precisamente nella poetica che lo anima e nella poesia che lo pervade. Entrambe nate da quello che Gaston Bachelard chiamava “immaginario materiale”, vale a dire un’intensa propensione a fantasticare sulle cose, a vedere in esse il riflesso magico di un libero ed inarrestabile slancio vitale.  

Il linguaggio plastico di Zorio è strutturato intorno alle icone che, in un certo senso, ne costituiscono gli ideogrammi: stelle, giavellotti, canoe, fasci di luce, crogiuoli, alambicchi, otri e pelli di animali. Tutte immagini che cristallizzano il divenire in una forma. Ma, al tempo stesso, tutte sono agitate dal fluire di forze che si contrappongono o convergono, ribaltando la natura stessa della scultura, fino a renderla figura tangibile dell’instabilità. Le reazioni chimiche di acidi e metalli, l’incandescenza dei cavi percorsi dall’elettricità, il sibilo degli otri gonfi d’aria, la fluorescenza delle stelle allo scomparire della luce, la spinta e la resistenza dei giavellotti intrecciati tra loro, rappresentano altrettante manifestazioni del sentimento di imminenza che attraversa il tutto. C’è sempre qualcosa che sta per accadere e la scultura è l’effigie dinamica della possibilità, non più la reliquia monumentale di ciò che è già accaduto.

Di conseguenza, i suoi lavori vivono in un istante teso tra il passato e l’avvenire, nel quale il salto dall’uno all’altro può attuarsi solo grazie all’immaginazione. Ed è così che il presente diventa il tempo in cui la libertà si rivela e si afferma, facendo del reale la propria opera.  “È utopia, la realtà, è rivelazione”, è appunto il titolo di un lavoro germinale, del 1971, nel quale queste stesse parole, sospese in aria, si mostrano o scompaiono, seguendo l’accensione alternata di lampade bianche e lampade di Wood. Un’opera paradigmatica, che presenta il verbo e la luce come origini del  mondo, ma non tanto nella loro dimensione metafisica, quanto nella fisica attualità di strumenti dell’ utopia. Il desiderio, cioè la tensione verso un qualcosa di immaginato che ancora non ha luogo, e la libertà, vale a dire la capacità di rivelarne la concretezza, appaiono in questo modo come le vere materie prime dalle quali Zorio estrae le proprie opere.

Che il desiderio, poi, abbia a che fare con le stelle sta scritto nella parola stessa. Quale che sia il significato attribuito all’etimologia, è comunque indiscutibile che “sidera” ne sia l’elemento fondamentale. E sarà ancora una coincidenza – però non dimentichiamoci di Jung – ma il luogo di nascita di Zorio è Andorno Micca, villaggio che deve il proprio nome al famoso patriota. Il caso vuole che l’origine del suo cognome, all’epoca il francese Micha, si trovi nel latino “mico” che significa brillare.  Nomina sunt consequentia rerum?

Sta di fatto che le stelle fanno la loro comparsa per la prima volta nel lavoro dell’artista proprio in un Autoritratto del 1972, nel quale brillano al posto dei suoi occhi. Il volto è modellato in una pelle animale, carnale e terrestre, mentre lo sguardo si rivolge talmente oltre da diventare il riflesso degli astri celesti.

Da allora in poi, la figura ancestrale della stella, schematizzata con cinque punte triangolari che insistono sui lati di un pentagono centrale, verrà declinata in una lunga serie di variazioni materiali e spaziali, dall’argilla al raggio laser, sospesa nel vuoto o distesa al suolo. Icona dell’immaginario che penetra la realtà, della cultura che ridisegna la natura, dell’incontro tra gli opposti, l’anima notturna dei sogni e lo spirito solare delle idee. Un’immagine “globale” nella quale saranno riassunti i tentativi e i compimenti, la memoria e le aspirazioni, la scienza e la magia di un itinerario che  ha come traguardo la libertà di inventare il mondo.

E, ciò facendo, di forgiare anche un’idea nuova di Uomo, attraverso la trasmutazione di quanto gli è più peculiare. Come in una serie di lavori realizzati tra il 1969 e il 1984, intitolati Per purificare le parole,  nei quali contenitori di diverse fattezze e materiali, riempiti di alcol ed aperti alle estremità, sono destinati ad essere attraversati dalle parole di chiunque decida di servirsene. Perché “l’alcol è un liquido mistico, lo si chiama anche spirito. Disinfetta, brucia, inebria, trasforma e modifica la percezione” dice Zorio. Così, è il linguaggio impalpabile, astratto, che viene plasmato dalle proprietà della materia e diventa corpo vivo della scultura. Acquista peso, densità, distillato nello stadio più elevato dell’opus alchemico, in una forma plastica che lo sublima.  

Gilberto Zorio è senza dubbio l’artista che meglio di ogni altro incarna oggi lo spirito umanista e neo-platonico del Rinascimento italiano, il suo sogno di centralità dell’homo faber, le sue istanze di libertà. La sua poetica è un inno al potere dell’uomo di penetrare l’anima della materia e le sue opere nascono dalla felice unione dell’utopia con l’esperienza. Senza proclami, ma con infinita pazienza, grande speranza, vigorosa acutezza e delicatissima poesia.

p.s. Il 1° novembre al Museo d'Arte Contemporanea Castello di Rivoli si inaugura la mostra retrospettiva di Gilberto Zorio con la quale viene celebrato il cinquantesimo della nascita dell'Arte Povera.

 

 

 

 

 

02-10-2015 | 16:30