George Best, il più bravo, il più bello

Il quinto dei Beatles, certo, il sombrero bizzarro un po’ Messico e nuvole, quel sorriso da filibustiere; basettoni, capelli lunghi e la maglia rossa (senza sponsor) dei Devils fuori dai calzoni; l’uomo pieno di donne, vizioso come in un romanzo di Drieu La Rochelle. Dionisiaco sperpero di denaro, ludopatia, autocisterne di whisky. Dissipazione fino all’autolesionismo. Volendo rievocare il grande calciatore nordirlandese George Best, senza peraltro possedere alcuna scienza in affari sportivi, viene in mente una vecchia canzone: “Ha tutte le carte in regola per essere un artista, ha un carattere melanconico, beve come un irlandese”. Il rovescio dolente della vicenda. Così per l’appunto cantava Piero Ciampi nel 1973, narrando con disincanto di se stesso beone, ma al contempo di chissà quante altre stelle cadenti, tutte piombate giù all’improvviso dal firmamento delle arti e dello spettacolo, direzione oblio e conseguente leggenda. Fune d’acrobata tesa sul vuoto, suspense, pericolo e illusione della distanza, per brillare un attimo in eterno. Trucchi necessari ad alimentare stupore: gli applausi del pubblico, l’incanto di quella corsa palla al piede e i difensori come paralizzati. Birilli. Era ancora gioco quello, oppure uno stratagemma estatico?

Quindi stereotipo maledettista nel momento del declino, simulacro del quale nemmeno le discipline sportive sono rimaste immuni, secondo le assennate previsioni di spettacolarizzazione totalitaria della società, efficacemente postulate da Guy Debord. Così anche nel popolarissimo giuoco del calcio, da sempre pervaso da un’ipocrita patina di perbenismo e chiacchiere da bar – presente quel pedagogico “dare il buon esempio”, le foto coi bambini prima del fischio d’inizio, per far ridere gli ultras in curva? così malamente ostentato, da fare alzare più di un sopracciglio ai più svegli – le pecore nere non sono certo mancate. Anzi, s’è fatto tutto gregge di pece, la posa soprattutto, quel gusto da rapper. Pensiamo piuttosto a Garrincha, Eric Cantona, Paul Gascoigne, Paolo di Canio, lo stesso Maradona e molti altri, fino ai capricci contemporanei degli ultimi viziati giocolieri catodici; tatuati e depilati modellini in calzoni corti ad uso pixel, satolli arricchiti in fretta e senza stile, che di maledetto o poetico hanno nulla. Solo un noioso conformismo indistinguibile da quello televisivo.

Assai diversa è la vicenda di George Best - non solo per il collocamento in altra epoca - già all’anagrafe condannato ad essere il migliore. Tant’è che a conferma di una popolarità sempre molto alta, nel 2000 uscì un film a lui dedicato, titolato semplicemente col suo emblematico cognome, quindi prima della morte un’autobiografia di rara schiettezza. Forse troppa, visto che il mito si autoalimenta per iperbole, ben più che di realtà o di sordidi retroscena. La verità: nient’altro che mangime per avvoltoi. Poi tributi e omaggi di varia natura, sovente postumi, come si conviene a una celebrità dai più amata spontaneamente, eppure al contempo sottilmente boicottata. Perfidia inglese, si dirà assennatamente. Perché poi la spavalderia, a lungo andare, genera invidia e la prevedibile caduta si porta appresso il lezzo delle morbose attenzioni. Dalle miss Universo denudate in lussuose suite d’hotel, alle cure ospedaliere per insufficienza epatica. Giravolte della vita, solo che a far roteare la trottola al contrario era proprio lui.

Certo il blasone del Pallone d’oro non lo poteva immaginare, quel giovane mingherlino, prelevato dagli osservatori del Manchester United e imbarcato senza troppe cerimonie, direzione Old Trafford. Non poteva e non voleva nemmeno adattarsi in quel teatro esigente, infatti lo sbarco in terra albionica coincise con un’immediata fuga, secondo una prassi chiara solo alla più limpida giovinezza: per gli altri capricci, per lui libertà. Eppure tornò subito dopo, si narra convinto da un amico, in realtà fatalmente predestinato ad esserci. E a sparire, come testimonia il fatto che l’allora calciatore più forte al mondo, mai abbia disputato un Mondiale di calcio. Con tutto che nell’82 l’Irlanda del Nord riuscì nell’eroica impresa di qualificarsi al massimo torneo planetario, ma Best già allo sbando etilico, rifiutò di giocare. L’imbuto dell’alcol ebbe così il sopravvento, egli si rese conto che la poesia dolente della vita di successo non andava per nulla d’accordo con la corsa dietro a un pallone. Così la stampa gli affibbio l’epiteto di codardo.

Che fare, se non toccare il fondo? E quanto sarà mai profondo quel catino di lordure? Come l’Ulisse di Joyce è libro spartiacque che inaugura la convulsa modernità – invero sterilizzandola in una sorta d’impossibilità a scrivere altro di decisivo – così il numero 7 dei Red devils divenne il prototipo di calciatore del futuro, talmente fuori registro da generare uno stile unico, inseguito poi da molti goffi imitatori. In vano. Ma soprattutto inaugurò la stagione del calciatore totale e dell’atleta-personaggio. Pur essendo ancora collocato temporalmente nella vecchia scuola calcistica britannica, tutta rozza fisicità e calcioni in avanti come nel rugby, Best seppe coniugare impeto e intelletto: ambidestro, funambolico nel dribbling, forte nel gioco aereo, tenace nonostante la corporatura media. Estroso, irriverente, geniale, implacabile fuggiasco su quei infiniti campi verdi, talmente dotato da non sapere bene che farsene di tutto il talento in eccesso. Pensò bene di sbarazzarsene cedendo al vizio, un altro bicchiere alla bisogna, che importava ormai? A una leggenda vivente? 

 

 

16-01-2018 | 18:43