David Lynch, Twin Peaks e Franz Kafka

Tra i numerosi personaggi delle prime serie di Twin Peaks e del film Fuoco cammina con me riproposti nella terza serie di Twin Peaks c’è quello di Gordon Cole, il superiore dell’agente Dale Cooper all’FBI, interpretato da Lynch stesso. Il personaggio è sordo, parla sempre a voce altissima e non capisce le domande che gli vengono poste, e così risponde spesso a sproposito, con effetti volutamente comici e surreali. Durante le indagini sull’omicidio di Theresa Banks (Fuoco cammina con me), inoltre, Cole parla uno strano linguaggio in codice che non viene compreso dai suoi sottoposti, né dagli spettatori, sortendo in questo caso l’effetto di frustrazione che è tipico di ogni mancata comunicazione o fraintendimento. Nella terza serie di Twin Peaks vediamo il personaggio nel suo ufficio, e il tema della non comunicazione o della comunicazione corrotta è stavolta rafforzato da un elemento visivo che racchiude molto della poetica di David Lynch, nella quale confluiscono surrealismo, espressionismo, esistenzialismo e riso dianoetico (tipico di Beckett).

Nell’ufficio di Cole troviamo infatti un grande ritratto di Franz Kafka, che viene inquadrato più volte e in maniera decisamente esplicita. Un riferimento intertestuale che sembra andare al di là del mero vezzo della citazione estetica. Il senso dell’assurdo di Kafka, la sua alienazione, le terribili lotte dei suoi personaggi con la lingua e la (non)comprensione reciproca, la deformazione espressionista e il tendere verso una non specificata entità metafisica sono temi che troviamo inequivocabilmente in Twin Peaks e in tutta l’opera di David Lynch. E forse è proprio Franz Kafka una delle chiavi più significative per esplorare al meglio gli anfratti della cosiddetta “lynchland”, l’universo estetico e stilistico del regista e le sue continue trasformazioni.

L’opera di Lynch è stata spesso avvicinata a Kafka soprattutto per quanto concerne gli aspetti di dolore e deformante sofferenza presenti in Eraserhead (che Lynch pare citare nella terza puntata della terza serie di Twin Peaks), nei cui aspetti stilistici e tematici l’influenza di Kafka è palese. Lo stesso Lynch ebbe a dichiarare che l’unico artista che sente come suo “fratello” è proprio Kafka. Per questo scrisse anche una intera sceneggiatura basata su La metamorfosi, non realizzando però mai il progetto a causa dei costi eccessivi. Da lì, molto è stato scritto circa gli aspetti kafkiani che informano Eraserhead. Tra questi, anche il rapporto complesso tra l’individuo e la società, le influenze della cultura capitalistica e la crescente solitudine che circonda i due protagonisti Henry Spencer e Gregor Samsa. In questo senso, va notato che nell’ufficio di Cole (Twin Peaks. The return), proprio davanti al quadro di Kafka è appesa una gigantografia che rappresenta il fungo di un’esplosione atomica, simbolo estremo, irreversibile e culminante di quell’assurdità e alienazione che hanno caratterizzato l’evoluzione dell’occidente. Ma i due riferimenti “tragici” nei poster dell’ufficio sono immessi in una situazione comica e quasi grottesca, a mimare proprio quel tipo di umorismo che già Deleuze e Guattari ravvisavano in Kafka, il suo gioco sardonico nel creare personaggi che incontrano, ma spesso creano essi stessi, problemi esistenziali. Problemi ai quali non è possibile trovare soluzioni, e che permettono infatti di avvicinarsi alla lingua e ai temi di Kafka da svariate prospettive.  

Così come l’agrimensore K. ne Il castello, Joseph K. ne Il processo e Gregor Samsa ne La Metamorfosi, anche l’agente Dale Cooper e gli altri personaggi di Lynch vivono nella spasmodica attesa di comprendere le motivazioni di tale incomunicabilità e di tali messaggi cifrati. Le loro emozioni e frustrazioni diventano un grido o talvolta un ghigno beffardo che sottolineano la condizione umana universale. L’individuo pare infatti condannato all’incomprensione o alla impossibilità di trovare risposte, non tanto perché le domande giuste non vengono mai fatte ma perché, molto più probabilmente, le risposte giuste potrebbero non esistere. Ed è forse questa l’unica soluzione possibile per l’opera di Lynch, sulla quale schiere di fan e giornalisti cinematografici continuano a interrogarsi, cercando soltanto le mancate risposte, le mancate corrispondenze, i particolari mai spiegati.

L’artista in realtà non è in grado di fornire tali risposte e dunque si allinea alla frustrazione dei suoi personaggi, i quali si allineano a loro volta ai lettori e agli spettatori immessi nel flusso narrativo alineare e distorto. Alla luce di tutto ciò, risulta imprescindibile avvicinare Lynch/Kafka a Samuel Beckett, specie nell’eco della famosa frase beckettiana “I don't know, I'll never know, in the silence you don't know, you must go on, I can't go on, I'll go on” (L’innominabile). Così come l’agente Cooper, anche noi spettatori non riusciamo sempre ad andare avanti, ma siamo quasi chiamati a farlo, all’interno di un’opera proteiforme che continuamente suggerisce e nasconde, deforma e rivela. Un’opera il cui linguaggio risulterà sempre alieno e straniero, proprio come accadeva nell’esperienza di Kafka stesso, un’esperienza che tanto ricorda quella dell’agente Cooper imprigionato nella Loggia Nera:

 “Racchiuso nelle mie quattro mura, mi sono trovato come un immigrato imprigionato in un paese straniero, ... ho visto la mia famiglia come strani alieni dai costumi stranieri, i riti e la lingua hanno sfidato molto la comprensione; anche se non voglio, mi hanno costretto a partecipare ai loro rituali bizzarri” (in Julian Preece, The Cambridge Companion to Kafka)

 

 

27-05-2017 | 00:41