Dall'ignoranza non ci si salva

"Che tipo è tua moglie?". "È comprensiva, basta menaje!". A regalarci questa e altre chicche di un  greve lessico familiare è Giacinto, padre padrone in una baraccopoli alle porte di Roma, ruvido set del film "Sporchi, brutti e cattivi" di Ettore Scola (1976).

Baraccopoli che negli anni 60/70 in realtà erano a due passi dal cuore pulsante di Roma e della dolce vita, prevalentemente popolate da grandi famigli perlopiù provenienti da Sud Italia,  come appunto nel caso del nostro protagonista, rustico emigrante pugliese decisamente più vicino all'australopiteco che al sapiens.

A vestire i suoi laceri panni, un ottimo Nino Manfredi, capofamiglia spietato e violento come solo nel regno animale siamo abituati ad accettare - e nemmeno sempre - attaccato al denaro con una brama patologica, abusante in ogni senso di chiunque gli capiti a tiro, nei suoi brevi percorsi di potere. Giacinto comanda senza ordine e senza amore, sino a farsi talmente detestare da finire avvelenato (col veleno per i ratti, coinquilini piuttosto invadenti delle baracche) con un piattone di spaghetti di sua moglie, oltraggiata davvero solo quando offesa pubblicamente nel suo ruolo a causa di una felliniana prostituta, Iside, improvvisamente assunta al ruolo di seconda consorte.

Ma Giacinto è una malerba, si salverà e diventerà ancora più bestiale nell'affermazione della sua pretesa supremazia, nel suo cieco delirio di onnipotenza patriarcale. Bisogna dire però che Giacinto è semplicemente il più abile e forte nella sua bestialità e che spesso le sue vittime non sono tanto "migliori" di lui, a cominciare dalla moglie, che accetta con più naturalezza la violenza sui propri figli delle corna sulla sua rancida testa.

Scola abbraccia anche un po' Pasolini mentre ci regala delle panoramiche sui bambini, tra reti dismesse, galline spennacchiate, latrine e cenci laceri; quando ci presenta un ragazzo che si improvvisa donna per guadagnare due soldi ma poi desidera e prende la cognata, come fumasse una sigaretta, mentre si lava i capelli; quando si ferma sul viso ancora pulito di una ragazzina dagli stivali gialli, che va a servizio per cinquemila lire al mese, fiera di fare un lavoro onesto in mezzo a tanto degrado di espedienti; quando ci presenta Tommasina, che affida alla sua fresca bellezza un riscatto che mai andrà oltre un giogo di lenzuola.

E, nel mentre, sullo sfondo si staglia algido il cupolone, più simile a un trompe l'oeil che a una realtà concreta e vicina, cartolina di sogni presto archiviati nel cassetto delle cose che succederanno mai.

Il film ha dei momenti tragicomici grottescamente divertenti, ma di fondo resta profondamente nostalgico, soprattutto quando fa intravedere la ricerca della bellezza, fugace e senza speranza, negli occhi di alcuni personaggi.

Lo spleen arriva forte però soprattutto constatando la triste rassegnazione dei bambini alla violenza ed al degrado in cui imparano a sopravvivere.

La scena finale infatti vede la ragazzina dagli stivali gialli levarsi all'alba per andare alla solita fatica, ma con un pancione più grande di lei. Ed è una pugnalata, perché durante tutta la durata del film lei, con la sua leggera e inconsapevole eleganza, sta lì a ricordarci che ci può essere un'eccezione, che ci si può salvare.

Scola in questa storia lascia poche speranze al riguardo e ci ricorda che la povertà e l'ignoranza colpiscono duro, a tappeto e a fondo. E a volte fanno anche più male del veleno per topi.

 

 

28-01-2015 | 17:33