Contro "cioè" e "praticamente"

Io: «Che studi hai fatto prima dell’Università?».

Lei/lui: «Praticamente ho fatto un liceo artistico».

Io: «Come, "praticamente"? L’hai fatto o non l’hai fatto».

Lei/lui: «No, no, praticamente l’ho fatto!».

Sono sopravvissuto alla «misura in cui», – grazie al cielo defunta – ho resistito, intatto nella mente ma desolato nel cuore, alla lebbra del «cioè», ma credo che soccomberò alla metastasi del «praticamente». «Praticamente io sono di Milano, ma praticamente cioè...» – il «cioè» ritorna e si agglutina a «praticamente» – «vivo praticamente a Rho». Il paragone tra questi intercalari invasivi e i virus nei computer è più che possibile. Come i virus, attaccano l’hard disk della memoria linguistica, distruggono ogni nesso sintattico prendendone parassiticamente il posto, mandano in metastasi ogni sequenzialità coerente nella narrazione di fatti.

Impossibile farsi raccontare, da chi sia contaminato dal virus del «praticamente», la trama di un film o di un libro – già, ma come l’ha letto? – «Praticamente Pinocchio, che praticamente diventa un bambino, praticamente è un burattino, che praticamente, suo padre, che praticamente è un falegname, fa praticamente un burattino... cioè praticamente di legno, che praticamente è un asino...».

Ne esce qualcosa del genere. Se sedessi sul banco degli accusati tremerei all’idea di trovarmi testimoni a discarico del genere. Da qualche tempo, mi è venuta la mania di contare mentalmente i «praticamente» che mi scorrono per le orecchie. Nel discorso di italiani dai 35 in giù, ho persino stabilito una proporzione media: in un enunciato di tre minuti, i «praticamente» si conquistano un buon 60 per cento rispetto a un 40 di parole significanti. Si possono verificare anche curve di frequenza geografica. Più ci si muove verso il Sud del Paese, più cresce la raffica dei «praticamente», che certo è tutt’altro che scarsa al Nord.

Ho cercato studi sociolinguistici che tentino una spiegazione di questa progressiva e catastrofica devastazione del linguaggio, e del pensiero – sostengo l’idea, per niente alla moda nel tempo presente, che tutto il pensiero umano sia solo linguistico – ma non ho trovato nulla. Nessuno sembra preoccuparsi dell’inettitudine espressiva di una gran parte degli italiani. Chi ignora altre lingue e non ha frequenti scambi con gente di altri Paesi europei, o extra, forse non ha modo di rendersi conto della gravità del problema tra la nostra gente.

I profeti della post-modernità grulla mi diranno che va bene così, che il pensiero sequenziale è una prigione, che la cultura dell’immagine..., e altre stronzate simili. Apocalittici reazionari, sostenitori delle humanae litterae del tempo antico – quando l’80 per cento degli italiani erano analfabeti e, pasolinianamente, «innocenti» – mi diranno che è la tv, il degrado della scuola. Spiegazioni che non mi soddisfano e non spiegano niente. Ci vorrebbe uno studio globale e radicale sul rapporto infelice – ieri, oggi, qui e ora – tra gli italiani e la propria lingua, mai del tutto posseduta.

 

 

22-08-2014 | 10:08