Con quella faccia un po' snob

Dopo l’uscita discografica coerentemente intitolata Snob, risalente allo scorso anno, il cantautore astigiano Paolo Conte torna alla ribalta con una serie di concerti estivi in piazze e teatri della penisola. Poco d’aggiungere rispetto alla musica e alle nuove composizioni, sulle quali spicca l’atmosfera jazzata di Tropical, al solito un guazzo sonoro elegante e volutamente retrodatato, come da cifra stilistica consolidata dell’autore. Quello che risulta interessante osservare, in questa epoca di chiassosa attualità a brevissima scadenza e di grossolana emotività per fanatismi comunicativi, è proprio l’approccio desueto dello spettacolo offerto da Conte, soprattutto dal vivo caratterizzato da uno stoico aplomb anticontemporaneo. Se confrontata con il baccanale tipico dei raduni musicali d’oggi, tra birre in lattina, umide nudità tatuate e ciabatte da resa incondizionata, tale esperienza concertistica rappresenta una rara alternativa mondana, l’occasione  perfetta in grado di convincere anche lo spettatore meno urbano ad assumere un contegno d’obbligo, proficuo in generale e consono all’evento in particolare; osservando dalla platea i musicisti, tutti impeccabilmente eleganti, anche il caldo torrido si fa scenografico elemento naturale da combattere alla vecchia maniera: ventaglio per le signore e capacità di sopportazione per i signori.

Bene inteso: la musica dell’autore di Gelato al limon, Azzurro, Via con me, Bartali e di molti altri capolavori della canzone italiana, non è semplicemente un’esercitazione nostalgica per inguaribili passatisti, bensì la raffinata costruzione di un viaggio estetico fuori dal tempo, transumanza fantasmagorica e stanziale non dissimile da quella ideata da Salgari tra ‘800 e ‘900; oppure, da altro punto di vista, il cinematografico susseguirsi di istantanee felliniane musicate, tuttavia organizzato secondo nebbiose quanto evasive laconicità piemontesi. Per l’avvocato astigiano con l’hobby della musica il passato novecentesco è un luogo mitologico da orchestrare e riscrivere con piglio impressionista, una recita confidenziale e al tempo stesso distaccata - tutto un separé dal quale sbirciare luoghi, femmine e situazioni stilizzate - in grado di portare a spasso il pubblico attraverso atmosfere seducenti, fatte di negritudine coloniale, francesismi anacronistici e stravaganze dal gusto vagamente retro-futurista. Un volto corrucciato da sali tabacchi e valori bollati a fare da maschera ad una voce rauca e liquorosa, uno smoking portato con incredibile naturalezza ed un pianoforte che mai indugia nella malinconia: basta un ghigno ironico a rendere avventurosa la faccenda, è sufficiente un frenetico cambio di ritmo per scorgere luoghi lontani, forse inesistenti e altresì credibili perché immaginabili, presenti in qualche angolo dimenticato della nostra memoria collettiva. Questioni da uomini, di sale da barba e da ballo, di bauli impolverati dove ficcare il naso, di donne memorabili e club privè nei quali recitare distrattamente la parte. Abbozzi ed approcci sempre in sospeso, che resteranno nel vago di un’intuizione  buttata lì dall’artista con nonchalance.

L’araldica sardonica di Paolo Conte è una cosa a sé stante nel panorama musicale italiano, satura di tributi al genio, seppure poco contraccambiati visto che il soggetto è sfuggevole, forse completamente assorbito ad essere quello che è. Piace immaginarlo infatti, credendo alle favole e all’illusione luccicante dello spettacolo, esattamente come appare: un burbero signore di quasi ottant’anni, estremamente elegante. Ed estremamente snob.

 

 

29-07-2015 | 09:58