Cappuccetto Rosso deve morire /34

18.00

L’Ispettore stava interrogando Russo già da un po’, ma a quanto pareva non era possibile farlo cadere in contraddizione. Aveva una memoria perfetta, come quella dei mafiosi: la memoria della cattiva coscienza, che rimugina di continuo tutto quello che fa e che vede per essere sempre pronta a colpire e a pararsi.

Il Commissario era rimasto immobile, col sigaro in bocca, a guardare l’Ispettore – come sempre molto bravo in quel genere di cose, ma quella volta insolitamente inefficace – interrogare Russo. E si ripeteva come un mantra martellante che se lo schedino fosse saltato fuori, quel cornuto sarebbe finito nella cella più buia del regno.

Purtroppo aveva già controllato uno per uno i suoi vestiti, i suoi effetti personali, lo spazzolino, i pettini, le scatole di cosmetici, gli appunti, tutti i dati del suo cellulare, le tasche di tutti gli abiti, sia quelli che aveva da prima sia quelli che aveva comprato alla boutique del Villaggio, aveva inutilmente aperto il guscio del suo pc e rovistato nelle sue interiora verdi e ramate, sotto le solette delle scarpe, nella fodera delle giacche, dietro le sovracoperte dei libri e dei manuali di management, sui bordi della loro cucitura...

Si alzò di scatto sbattendo le mani sul tavolo con una tale velocità e violenza, per lui davvero così insolita, che perfino l’Ispettore si spaventò. Russo, semplicemente, atterrì e sbiancò. Gli si leggeva in faccia che se non avesse sbattuto le mani sul tavolo avrebbe finito col serrarle attorno a quel collo liscio e profumato di crema per il corpo e acqua di colonia.

«Russo, la Scientifica troverà tutte le tracce che ora lei non sa nemmeno di aver lasciato. Un solo granello di sabbia della scena del delitto sotto le sue scarpe e farò in modo che le diano l’ergastolo. Quindi la smetta di fare lo stronzo!».

«Commissario» disse quello recuperando la prontezza da qualche parte «se fosse così lei non perderebbe le staffe. E invece ce l’ha scritto in faccia che è un bluff. Se questa fosse una corsa, sulla sua maglietta ci sarebbe il numero più basso» e sorrise. «E comunque non parlo più finché non telefono al mio avvocato» concluse.

Il Commissario era tremendamente vicino all’aggredirlo. Non doveva essere una dannata prova di dna a incastrarlo, ammesso che ne avesse lasciata una, non doveva essere qualche altra prova indiziaria. Il mosaico non doveva completarlo nessun altro che lui, era una questione di completezza: era riuscito a inseguirlo fin lì, prima sul filo delle prove poi per i sentieri impervi della campagna. Non poteva fermarsi lì, quello schedino doveva saltar fuori. Dove accidenti poteva averlo nascosto? Quello era l’unico legame tangibile fra Russo, Marinaro e Lagri e doveva rinvenirlo lui, non c’erano alternative, altrimenti ci avrebbe ripensato continuamente, come era successo quando per causa sua era stato ingiustamente incolpato il fratello di Roberta Giano. Ma proprio mentre stava per dire all’Ispettore di lasciarlo da solo col manager per una seduta intensiva di domande a suon di sganassoni, si ripeté “...Il numero più basso” in mente. Quella frase gli echeggiò in mente ossessivamente, per un numero di volte altissimo al secondo. Un numero, una serie di numeri. D’improvviso si calmò e guardò Russo in un modo tale che quello ne fu sconvolto. Come se si fosse reso conto di aver detto qualcosa di sbagliato, irrimediabilmente sbagliato.

Il Commissario scantonò fuori dalla stanza dove lo stavano interrogando, ossia l’ufficio del vicedirettore del Villaggio, e piombò nell’ufficio del Direttore. Da lì telefonò a Grandi, dicendogli di aver immediato bisogno di un mandato di perquisizione nei confronti di Russo. Ci volle un po’, ma alla fine il fax rigurgitò il foglio controfirmato dal giudice.

S’infilò allora dove erano stati riposti gli effetti di Russo. Aprì il bagaglio a mano e tirò fuori tutti gli abiti nuovi che aveva. Gli interessavano soprattutto quelli col cartellino ancora attaccato. Dopo averli esaminati con attenzione, molto più attentamente di quanto avesse fatto scioccamente prima, ne individuò uno. Con un taglierino lo asportò delicatamente, scoprendo che era stato messo lì con colla a presa rapida e scotch. Ecco lo schedino, candido e squadrato come un tassellino di mosaico, nella sua mano.

Ritornò calmo nella stanza dell’interrogatorio e, senza dire nulla, lo alzò in aria, mostrandolo a Russo e all’Ispettore. Il manager svenne.

 

20.00

Il dottor Vargiu, il medico legale, telefonò al Commissario per comunicargli alcune notizie piuttosto interessanti, e lo trovò in uno stato insolitamente allegro, quasi euforico.

«Che ti prende?».

«Ho beccato l’assassino di Marinaro e di Lagri: mi merito un premio».

«Che c’entra Lagri? Quello è morto da solo».

«Come sarebbe a dire?».

«Su Marinaro non c’è problema: ho trovato, sotto il cerotto, le tracce dello strangolamento. Sotto le unghie, aveva anche dei resti di pelle, quindi poi faremo un bel confronto col tizio che hai preso. Ma Lagri è morto a causa di un’emorragia cerebrale: era iperteso, fatto di barbiturici, ubriaco come un alpino e, cadendo, quando ha sbattuto per terra dopo essersi ferito al mobiletto, l’urto gli ha causato l’emorragia. E, a quel che ho visto, non ci sono segni di violenza».

Il Commissario ci rimase di sasso. Ci aveva fatto la bocca all’idea dell’omicidio e vederla smontata così lo trovava completamente impreparato. “Pazienza”, si disse.

 

02-11-2015 | 12:06