Cappuccetto Rosso deve morire /10

Il cellulare, provvidenzialmente lontano dal raggio acustico della Giano, trillò: era l’Ispettore, che aveva verificato la veridicità della telefonata di Marinaro.
«In effetti la paziente l’ha chiamato ed è rimasta con lui».
«Quanto?».
«Non me l’ha saputo dire con precisione, ma ha detto che hanno parlato fra due pubblicità... un blocco televisivo di programma è circa un quarto d’ora o venti minuti, quindi ci starebbe pure. Di Pileggi non ho saputo nulla, praticamente non lo conosce nessuno: si è sempre disinteressato dei contatti coi suoi colleghi, ma non ho scoperto perché. Inoltre, mi sono preso la libertà di chiedere in giro dov’è quel dottor Antico».
«E da dove hai preso l’ispirazione?».
«Da quello che ha detto Giovanni Labile».
«Ma tu ti eri alzato a prendere gli antipasti».
«Sì, ma le orecchie le tengo buone».
«Non ne dubito. Allora?».
«Non è nel Villaggio. È uscito stamattina sul presto per un’escursione».
«Va bene. Ci sentiamo dopo» e nel premere il tasto rosso sul tastierino del cellulare pensò “Forse è venuto il momento di parlare con Giovanni Labile”.

Lo trovò dalle parti della piscina, su una sdraio. Indossava un costume rosso con una striscia laterale bianca, della Tribord. Leggeva un libro con aria concentrata, aggrottando le sopracciglia. L’atmosfera intorno all’acqua azzurra che odorava di cloro era gioviale, come di villeggianti finalmente in ferie più che di professionisti impegnati in un prestigioso congresso: questa impressione convinse ancor di più il Commissario che quel congresso era solo un pretesto per offrire una vacanza ai medici allo scopo d’ingraziarseli o circuirli. Aveva gli occhi cerchiati, Labile, con borse quasi livide. Doveva dormire poco, forse per le preoccupazioni o forse per il lavoro. O forse per entrambi. Era brevilineo, ma non tarchiato, allo stesso tempo non si poteva dire che gli mancasse un certo stile. Più che altro, il Commissario poteva dire che Giovanni Labile sapeva misurare i propri gesti, che non è cosa frequente.

«Buongiorno signor Labile».
«Buongiorno Commissario» disse quello alzandosi.
Si strinsero la mano e subito dopo Labile recuperò la propria polo color crema e la rindossò.
«Ho bisogno di parlare qualche minuto con lei».
«Certo».
«Andiamo al bar?».
S’incamminarono, costeggiando il bordo della piscina dove i bambini stavano giocando, facendo fruttare fino in fondo gli ultimi minuti prima che le madri li chiamassero per tornare ai bungalow a farsi la doccia in vista della cena.
Si sedettero al bar e ordinarono un’anisetta e un Campari.
«Innanzitutto le vorrei chiedere qualcosa su Sergio Pileggi, nel caso lo conosca. Ho bisogno di capirlo meglio».
«Sergio lo conosco e non lo conosco. Come manager ha avuto i suoi guizzi, dei successi davvero incredibili. È profondamente creativo e preparato. Il management è un arte, anche se non sembra, e lui è davvero un artista. Ma ha un carattere particolare. Glielo dico perché lo conosco dai tempi dell’università, quindi con quella totalità che si ha da ragazzi. Ma dalla laurea ho perso le sue tracce e ne ho sentito parlare solo indirettamente per motivi professionali. Ha un’intelligenza splendente, secondo me. Anzi, addirittura abbagliante. Una capacità rarissima di cogliere i problemi, di analizzarli e sintetizzarli, di trovare soluzioni originali. Ma a mio avviso è troppo intelligente. Mi spiego meglio, se me lo permette».
Il Commissario annuì, poggiando il mento fra pollice e indice.
«Camus, il filosofo, disse che l’unico problema filosofico veramente serio è il suicidio: nasce dalla scoperta dell’assurdità della vita. Sergio, che come Camus è troppo intelligente, fin da ragazzo è tormentato da questo abisso che c’è fra la certezza dell’esistenza e il contenuto che tento di dare a questa sicurezza. Mi segue?».
«Perfettamente. Sono solo curioso di vedere dove andremo a parare».
«Le dico questo solo perché credo che sia il vero motore di Sergio. Lui è letteralmente annichilito da questo nonsense. Vive l’assurdo con una tale pienezza che ormai credo lo abbia paralizzato. In fin dei conti un manager è uno che non sa fare nulla e allora amministra quelli che sanno fare qualcosa, credevo di averglielo già detto. Ma un manager lo fa anche perché vuole fare ordine, dare un senso a tutte le cose che si fanno in un’azienda. Sergio si è aggrappato al suo lavoro con forza proprio nel tentativo, credo, di fare ordine dentro di sé e dare un senso alla sua vita. Prima d’incontrare l’assurdo l’uomo quotidiano vive con degli scopi e con il pensiero dell’avvenire. Valuta le proprie possibilità, fa assegnamento sulla pensione o sul lavoro dei figli. Crede anche che nella sua vita qualcosa possa avere una direzione. Sergio, dai tempi dell’università, impazziva letteralmente su questo problema: lui è un uomo dell’assurdo. E questo lo rende, più che un suicida, un condannato: potrebbe fare qualunque cosa perché non trova senso in niente».
«Potrebbe anche arrivare a uccidere?».
«Non voglio che mi fraintenda. Sergio Pileggi è un uomo rispettato e rispettoso delle regole. Però devo ammettere che non credo abbia nessuna riserva morale sull’omicidio. Se fosse meno pigro, probabilmente, e meno demotivato, potrebbe anche uccidere... anche se personalmente arriverei anche a garantire per lui».
Il Commissario annuì gravemente: per come lo dipingeva Labile, effettivamente, quell’uomo poteva essere un assassino più degli altri, ma anche molto meno: probabilmente non avrebbe mai ucciso non trovando un senso nel farlo. Si uccide per qualche motivo: Pileggi aveva motivi così validi? A quel punto cambiò discorso:
«Ricorda qualcosa della serata di ieri?».
«Che tipo di cosa?».
«Descriva l’incontro con Lagri?».
«Dunque, ieri sera sono arrivato sul presto. Diciamo intorno alle 18.00. Ho disfatto la valigia e poi mi sono fatto una doccia. Mi sono vestito e sono andato a cena. Saranno state le 20.00. Ho fatto un giro al buffet e poi mi sono seduto da solo. Di quelli che c’erano al ristorante in quel momento non conoscevo nessuno. Dopo un po’ è arrivato Marco e abbiamo continuato a mangiare insieme. Abbiamo parlato del più e del meno, un po’ di politica, qualche commento sui nostri colleghi…».
«Com’era vestito?».
«Marco era un tipo piuttosto informale. Aveva un jeans, delle Hogan e una camicia di lino blu scuro. Crede possa essere importante?».
«Non lo so. Dice che era un tipo informale?».
«Non amava molto giacca e cravatta, ma non dispiaceva: trasmetteva una sensazione piacevole, di relax».
«Lei, invece, le usa di più giacca e cravatta?».
«Sa, nel momento in cui si deve avere a che fare con molte persone è bene essere in ordine».
«Che manager era Lagri? Cosa si diceva di lui nell’ambiente?».
«Marco Lagri era perfettamente in linea col trend attuale: dava una grande importanza all’autopromozione, al marketing, alla cura della propria immagine…».
«Era un chiacchierone, diciamo».
«Guardi, alla fin fine concludeva degli affari sostanziosi e comunque il suo settore alla Deltamed andava bene, malgrado la crisi. Era il suo stile. Certo, ad alcuni poteva non piacere: sotto molti aspetti era superficiale, a volte dava più importanza alla forma che al contenuto… Ecco, forse in questo avrebbe potuto rendere difficile la vita a qualcuno».
«In che senso?».
«Nel nostro lavoro i capi ci spronano ad avere sempre idee creative, favolose, nuove, interessanti, stimolanti, fresche, ma la vita non è sempre una megaspirale verso l’alto. Allargare il cerchio non è sempre possibile, ma bisogna badare piuttosto a gestire ciò che c’è. Non è sempre una esplosione, molto spesso è gestione. Quindi, per far funzionare un settore serve anche sostanza e contenuto, impegno e lavoro. Se chiede ai miei colleghi, molti le diranno che Lagri era poco più che un venditore di fumo e nient’altro, perché non riusciva mai a concretizzare. Se aveva con sé qualcuno che amministrasse la parte pratica, per lui era tutto a posto, altrimenti poteva essere pericoloso per sé e per i propri colleghi. Naturalmente questa sua caratteristica dava molto fastidio ad alcuni. Insomma, per essere più chiari, non tutti sono disposti a sgobbare per preparare la scena a uno che con un sorriso azzeccato strappa un contratto e poi si fa bello coi capi. O, per meglio dire, ci sono quelli disposti a farlo, ma non senza sputare veleno».
«Lei era fra questi?».
«No, ma cerchi di capirmi. Non voglio dire che Marco fosse una persona inaffidabile o una specie di truffatore. Dico solo che conosceva le persone giuste, che sapeva riconoscere il valore dei suoi contatti e che tutto sommato andava bene così. Ma allo stesso tempo non posso farci niente se la penso diversamente da come la pensava lui».
Il Commissario aveva tutta l’impressione che Labile fosse stato un ufficiale nell’esercito, gli dava di caserma: probabilmente era uno di quelli che mettono i bottoni della camicia in fila col bottone del pantalone.
«Grazie per le informazioni, Labile».
«Si figuri, Commissario. E, scusi eh, ma se lo lasci dire: lei ha bisogno di un consulente. Ci vuole qualcuno che un po’ conosca l’ambiente, e lei non lo conosce per niente».
Il Commissario sorrise senza rispondere. Si salutarono e proseguì il giro degli assenti in anfiteatro.

14-05-2015 | 11:32